La quattro stagioni

massa critica | davide tommaso ferrando

Vi siete accorti del silenzio stampa che avvolge, a una settimana dalla sua inaugurazione, il padiglione Italia alla XIII Mostra di Architettura della Biennale di Venezia – quello affidato per il rotto della cuffia a Luca Zevi e intitolato “Le quattro stagioni”? Io sì. Cosa alquanto curiosa, soprattutto perché non si può certo dire che progettisti e critici italiani, nel frattempo, non si siano espressi sull’ultima edizione della kermesse veneziana, come ben dimostrato dai più e meno caustici commenti subito pubblicati online da Leopoldo Freyrie, Luca Molinari (1 e 2), Luigi Prestinenza Puglisi (1, 2, 3 e 4), Stefano Casciani, Emanuele Piccardo e Pippo Ciorra. Eppure di riflessioni critiche sul progetto culturale di Zevi neanche l’ombra, eccezion fatta per le frettolose allusioni di Freyrie e Ciorra, gli strategici smarcamenti di Prestinenza Puglisi (che assegna il massimo dei voti alle spinbikes ma non al padiglione che le ospita), e – unico caso, per quanto mi risulta – il bell’intervento a gamba tesa di Piccardo.

Ora, è vero che la scelta di non parlarne può essere interpretata come una presa di posizione critica; ed è anche vero che in certi casi, come ad esempio quello di Molinari (curatore del padiglione Italia nel 2010), la sospensione del giudizio può essere suggerita da un altrimenti criticabile conflitto di interessi. Ma il problema è che, a furia di non voler/poter entrare nel merito del padiglione di Zevi, questo rischia di essere ricordato esclusivamente attraverso le parole del suo stesso curatore – inevitabilmente acritiche – o, nel migliore dei casi, attraverso quelle della stampa non di settore – quando invece di cose da dire, da apprendere, e  soprattutto da non ripetere, ce ne sarebbero parecchie. Siccome, dunque, ritengo doveroso che la critica italiana si esprima pubblicamente sul suo padiglione (se no, intendiamoci, che ci stanno a fare i critici di architettura?), e siccome la settimana scorsa ho avuto modo di visionarlo con calma, assistendo inoltre alla conferenza stampa di apertura, ho deciso di rompere il ghiaccio e occuparmi, finalmente, di questo apparente tabù.

Gioco a carte scoperte: il mio giudizio è negativo, e questo a prescindere dalla qualità del progetto d’allestimento dei DEMO architects – di cui non mi interessa parlare in questa sede – e a prescindere dall’indubbia difficoltà di dover mettere in piedi in soli tre mesi un padiglione nazionale alla Biennale – anzi, i miei complimenti vanno qui a Luca Zevi, Marco Burrascano, Marialuisa Palumbo, Giampiero Sanguigni e a tutto il loro team, per essere riusciti a compiere un vero e proprio miracolo nel pochissimo tempo a disposizione, augurandomi però che tra due anni il Ministero non tardi così tanto nello scegliere il prossimo curatore. Quello di cui mi preme occuparmi, per capirci, sono i contenuti.

La tesi del padiglione Italia è chiara. L’Italia sta attraversando una fase di difficoltà economica legata allo svolgersi della crisi globale e, per risollevarsi, deve imparare a scommettere sui propri punti di forza che sono, rispettivamente, il paesaggio (inteso come ambiente naturale originario in cui l’uomo è cresciuto, si è nutrito e ha cominciato ad aggregarsi) e il Made in Italy. Se poi, durante tutto il Novecento, lo sviluppo del tessuto industriale si è – quasi ovunque – accompagnato alla disseminazione sul territorio di «opere di grande valenza tecnica ma poca valenza qualitativa», appare oggi possibile sintetizzare un nuovo modello di sviluppo economico, ripartendo dall’esperienza di Adriano Olivetti e declinandola nell’ottica di un «capitalismo ben temperato», capace, cioè, di coordinare in un unico insieme virtuoso istituzioni, impresa e cultura, e di promuovere operazioni di trasformazione del territorio in cui il consumo di suolo sia sempre accompagnato da un alto grado di attenzione paesaggistico-ambientale. Le sezioni in cui il padiglione è organizzato illustrano questa tesi, offrendo ai visitatori della Biennale a) un giardino coperto di 800 metri quadrati, situato all’ingresso del padiglione e denominato Bosco Italia; b) una rivisitazione storico/critica dell’esperienza Olivettiana; c) una selezione di 99 edifici produttivi più o meno recenti caratterizzati da «progetti architettonici d’eccellenza»; c) una video installazione a tema agro-paesaggistico; e d) una serie di video proiezioni prodotte da diversi autori, contenenti spunti e riflessioni su alcuni dei temi legati all’Expo 2015 – la città costruita, lo spazio pubblico, le forme/pratiche di altra economia e la creazione di comunità (virtuali).

Passando ora a una rapida analisi critica dei contenuti del padiglione, vorrei in primo luogo sottolineare come proprio una delle premesse su cui si fonda questo ambizioso progetto culturale – la definizione di paesaggio come «ambiente naturale in cui l’uomo vive, si nutre e cresce in comunità» – sia in realtà erronea, non solo perché il termine «paesaggio», come si legge ad esempio nella CEP del 2000, non indica affatto un luogo inteso nel senso fisico del termine, bensì il modo in cui tale luogo è visto da una popolazione (per capirci, il paesaggio è un’immagine spaziale, non un’entità territoriale); ma anche perché l’idea che l’aggregazione sociale sia un fenomeno originariamente definito da uno stretto legame con il paesaggio naturale è quanto meno discutibile, apparendo invece più plausibile l’idea opposta, ovvero che sia proprio nell’ottica di uno scontro con la natura (come scriveva Alvar Aalto) che l’uomo crea, da sempre, le condizioni necessarie alla vita comunitaria (che sia una casa, un villaggio o una metropoli, non importa).

È però altrove che si annida quello che, a mio avviso, costituisce il principale problema del padiglione Italia di quest’anno (che non può certo essere ricondotto a una sottigliezza epistemologica), ovvero nella clamorosa assenza di una qualsivoglia idea di architettura dalla proposta curatoriale di Zevi. Fondato su una tesi essenzialmente economica – tant’è che imprenditori e architetti occupano, al suo interno, un posto equipollente – il padiglione Italia non costruisce alcun tipo di ragionamento a partire dalla disciplina architettonica, bensì si riversa su di essa in ultima istanza, una volta che sia stata definita l’occasione (commerciale) offerta dall’insistenza sul territorio di un tessuto produttivo dinamico con necessità di rilancio. Non stupisce, in questo senso, che sia proprio questo il progetto selezionato dal ministero tra la decina di candidature presentate ad Aprile, dato che la proposta di Zevi ha l’indubbio merito di partire da un problema reale, e di ipotizzare una sua possibile soluzione a partire da una storia positiva del nostro Paese – quella dell’esistenza di un nuovo tipo di imprenditoria, culturalmente attenta ed ecologicamente responsabile. Quanto però tale storia sia vera, e quanto abbia realmente e criticamente a che fare con la cultura architettonica italiana – escludendo da questa qualsiasi tipo di speculazione da manuale su sistemi di recupero energetico et similia – è tutto da verificare.

Risulta più che ridondante, in questo senso, la “selezione” dei 99 progetti che compongono la sezione del padiglione dedicata alle architetture del Made in Italy, in cui opere pregevoli come la Domus Technica di Iotti+Pavarani vengono affiancate a progetti di fattura nettamente più modesta, come lo Stabilimento Alenia Aermacchi dello Studio Amati, nonché a edifici chiaramente problematici, come l’Officina Vidre Negre di Damilanostudio. L’unione “sotto lo stesso tetto” di tanti progetti , qualitativamente così diversi, denuncia un totale disinteresse nei confronti della critica architettonica come strumento epistemologico e operativo: declassata a una selezione aribtraria di immagini accattivanti, la critica lascia infatti il posto al gusto, trasformandosi così in uno strumento per parlare, in maniera pseudoscientifica, non più di architetture bensì di architetti (spesso amici) – dei quali vengono messe in vetrina le opere meglio fotografate, indipendentemente dal loro valore. La lista di progetti proposta dal padiglione Italia mostra la stessa assenza di spirito critico quotidianamente riscontrabile nelle dozzinali pubblicazioni dei portali web, rispetto alle quali Zevi sembra proporre un sunto tematico (l’ennesimo “album”), invece di un’attenta selezione. La scelta dello strumento digitale (proiezioni video e touch screen) come unico medium di trasmissione dei contenuti, complica, inoltre, la possibilità di comprensione degli stessi, il più delle volte ridotti a sequenze di flash sui quali non è possibile soffermarsi e ragionare; similmente, la preferenza accordata alle (più spettacolari) immagini fotografiche e ai render, a scapito di disegni (pochi) e modellini (assenti), non fa altro che disperdere il potenziale didattico, già compromesso dalla foresta di slideshow, delle schede progetto che varrebbe la pena approfondire, offrendo così una lettura estremamente superficiale delle architetture presentate, che vengono in ultima istanza ridotte – questo sì, in perfetta sintonia con il trend del momento – a semplici immagini da copertina.

Un’ultima osservazione va infine fatta in merito al senso di dispersione che caratterizza, paradossalmente, questa mostra così rigorosamente ordinata nel suo allestimento. Non credo sia infatti necessario scomodare Mies e il suo noto aforisma Less is more per comprendere come all’affastellamento di molte idee contigue sia sempre preferibile la concentrazione di poche idee convergenti – vedansi, ad esempio, i padiglioni della Germania, della Svizzera, del Cile, della Finlandia, etc., tutti basati su un’idea semplice, chiara, forte e – aspetto non secondario – economica (a proposito, sarebbe bello sapere, dato che si tratta di denaro pubblico, quanto è costata la realizzazione del progetto di Zevi). Invece, al padiglione Italia troviamo: il Bosco Italia; la mostra su Olivetti a cura di Massimo Locci e Federico Bilò; i 99 progetti selezionati da Rosario Pavia, Cristina Beccaria, Emanuela Guerrucci e Antonella Radicchi; le carte tematiche di Laura Canali; i video tales di Monica Maggioni e Dario Curatolo; le video narrazioni di 2A+P/A, ARCò e Luca Diffuse; la web community Gran Touristas affidata a Stefano Mirti; e poi le spinbikes di Oscar Santilli, l’opera d’arte di Michelangelo Pistoletto e la (non ancora realizzata) pergola esterna fotovoltaica… e di sicuro ho dimenticato qualcuno.

Se si trattasse, in sintesi, di una mostra qualsiasi, autonomamente prodotta da un curatore (Zevi), gestita da un’istituzione (Inarch) e agganciata a un grande evento (Expo), sono convinto che il mio giudizio sarebbe molto meno sferzante, per quanto comunque negativo. “Le quattro stagioni” è, senza ombra di dubbio, una riflessione densa e complessa sullo stato dell’imprenditoria italiana di qualità e sulla necessità di trovare modelli di sviluppo alternativi, rispettosi dell’ambiente e del paesaggio, per fondare il rilancio economico del nostro Paese. A questa riflessione si affianca, parallelamente, un discorso sull’architettura che può accompagnare (e ha accompagnato negli ultimi decenni) trasformazioni di tipo virtuoso, mettendo in luce come l’instaurazione di un rapporto proficuo tra committenza e progettista possa ancora essere alla base di una produzione architettonica di qualità. Detto questo, però, è evidente come sia mancata la capacità di gestire in maniera critica proprio la parte più specificatamente architettonica di questa riflessione – e questo è gravissimo,  trattandosi di un padiglione nazionale alla Mostra di Architettura della Biennale –, che è stata risolta in una selezione di progetti contestabile, in una serie di installazioni più suggestive che didattiche e in tante, forse troppe divagazioni verso temi tangenziali alla disciplina architettonica strettamente intesa. Quest’ultimo fatto è, indubbiamente, un segno dei tempi, ed è senz’altro vero che parlare oggi di autonomia disciplinare è vetusto ed errato. Ma non smetto di pensare che, se si vuole far progredire l’architettura, sia soprattutto in direzione del suo centro disciplinare che si deve tornare a scavare, e non solo tra le tantissime (tutte interessantissime e tutte battutissime dai media di settore) incursioni che le altre discipline compiono, continuamente, all’interno della sua sfera.

Perché il rischio, come dimostrato dal padiglione di Zevi, è proprio quello di relegare l’architettura in un ruolo secondario, riducendola così a semplice strumento estetico e attuativo di una serie di interessi altri. Ma questa pizza di discorso, soprattutto se propinato alla Biennale, non è accettabile.

Davide Tommaso Ferrando

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