Se questo è un padiglione italiano

massa critica | davide tommaso ferrando

Ho la spiacevolissima sensazione che, se i contenuti della proposta per il padiglione italiano di Luca Zevi troveranno sostanziale conferma nel progetto che verrà presentato alla Biennale di quest’anno, sia ormai possibile fissare la data ufficiale del suicidio dell’architettura italiana: 29 agosto 2012.

Se ho letto bene, il “racconto” di Zevi si articolerà attorno a tre elementi:

a) “l’oggi”. Una mostra su Adriano Olivetti (!), Ivrea, e i luoghi del lavoro contemporanei. Ovvero: dato che dell’architettura contemporanea in Italia non si capisce niente, piuttosto che cercare di capirla, rischiando magari di spararla grossa (non diciamo di sparare a zero, tanto lo spirito critico è ufficialmente latitante) meglio fare un bel tuffo nel passato e riportare per l’ennesima volta l’attenzione su un tema storico che gode di un consenso condiviso. Dato, poi, che negli ultimi anni in Italia il territorio rurale è stato devastato dall’espansione degli insediamenti residenziali, commerciali e produttivi, facciamo vedere al mondo intero una selezione degli esempi più virtuosi di questa situazione vergognosa.

b) “il futuro”. Un’area dedicata all’Expo 2015 di Milano. Un progetto ferocemente contestato, in ritardo colossale, pesantemente ridimensionato, dalla qualità discutibile, e più che probabilmente in mano alle mafie. Facciamoci belli.

c) – la chicca che non poteva mancare – “la sfida”. Sempre all’avanguardia, il padiglione italiano, nel 2012, si trasforma in un prototipo di edificio energeticamente sufficiente – olé! Esattamente vent’anni dopo la conferenza di Rio de Janeiro, l’Italia (famosa per la lungimiranza delle sue politiche energetiche) decide di spiegare al mondo intero come si fa a “razionalizzare l’uso dell’acqua attraverso sistemi di depurazione naturale e come prevedere un uso produttivo della vegetazione, in termini di qualità ambientale (comfort climatico e acustico), alimentare e sociale (l’orto, il giardino e l’allevamento di piccoli animali da cortile)”. Ovviamente, tutti i materiali utilizzati per l’allestimento dovranno essere riutilizzati dopo la mostra: animali da cortile compresi. Facciamoci male.

Leggendo la proposta di Luca Zevi mi vengono in mente tre considerazioni:

1) A Giochi senza Frontiere, ogni squadra/nazione era solita giocarsi l’unico “jolly” a disposizione (che comportava il raddoppio dei punti ottenuti) nella gara in cui sapeva di eccellere, per ottenerne il massimo beneficio. Se il padiglione alla Biennale fosse il “jolly” dell’architettura, abbiamo evidentemente deciso di giocarlo laddove siamo internazionalmente più deboli (gestione del consumo del territorio, politiche urbanistiche, sostenibilità). Mi ricorda un po’ il film Cool Running, in cui gli atleti giamaicani cercavano di imitare (ovviamente, senza riuscirci) i bravissimi atleti tedeschi per scendere meglio in slittino: invece di fare il compitino, e parlare anche noi di sostenibilità, forse era il caso di affondare i denti nelle nostre radici per estrarne dei temi tanto contemporanei quanto nostri (e magari non problematici come quello delle realtà produttive sparse sul territorio).

2) Il progetto del padiglione sembra il canovaccio di un numero di Edilizia e Territorio. La totale assenza di una visione critica sulle dinamiche dell’architettura contemporanea, la scelta di temi attuali che vanno molto di moda e che all’estero trattano molto meglio di noi, svelano (a mio parere) il sotterraneo orientamento del padiglione verso un’idea di architettura ridotta al valore di scambio del manufatto. Un valore che, oggi, è dettato (a norma di legge) anche dalle prestazioni climatiche dell’edificio, ma che poco o nulla ha a che fare con i discorsi che ci si aspetterebbe di veder riassunti nel contesto della nostra Biennale.

3) In tal senso, “edifici produttivi” è davvero un tema adatto al padiglione nazionale di una Biennale? Si tratta davvero di un tema strategico e in grado di creare e giustificare una profonda riflessione architettonica sulla base di una serie di opere selezionate? Mi riservo il diritto di cambiare opinione una volta che avrò visto l’elenco degli edifici presentati, ma sono davvero curioso di conoscere (per non dire: temo) il criterio con cui saranno selezionati, perciò, per facilitare le cose al curatore, linko qui di seguito il risultato della ricerca su Europaconcorsi “edifici industriali in Italia”, vedremo poi quanti e quali di questi progetti appariranno a Venezia.

Per concludere, temo che il padiglione di Zevi non avrà nulla a che fare con l’attuale situazione dell’architettura italiana. Non ne denuncia le gravi emergenze. Non ne indaga l’attuale e palpabile tensione tra assenza e possibile ritorno della teoria e della critica. Non mette sul tappeto quella che credo sarà la vera sfida del prossimo decennio, ovvero la necessità di fermare l’espansione edilizia, demolire e tornare a lavorare sul già costruito. Non sviluppa alcun tipo di discorso teorico.

Spero di sbagliarmi, ma le premesse, dal mio punto di vista, sono davvero preoccupanti.

Davide Tommaso Ferrando

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