massa critica | davide tommaso ferrando
Sono passate poco più di due settimane da quando «Il Fatto Quotidiano» ha pubblicato, nella sua edizione online, un articolo (firmato Eleonora Bianchini) in riferimento alla lettera aperta con la quale il movimento palermitano Professionisti Liberi Comitato Paolo Giacone ha recentemente accusato l’Ordine degli Architetti di Torino di non adempiere al proprio ruolo di sanzionamento e vigilanza sulla moralità dei propri iscritti.
L’accusa giunge in risposta ad una prima lettera, scritta dallo stesso OAT al procuratore antimafia Piero Grasso, che in occasione di un convegno sulla “zona grigia” tenutosi a febbraio a Palermo, aveva sentenziato che gli Ordini professionali non fanno la loro parte in tema di lotta alla Mafia e rispetto dei codici deontologici.
La tesi sostenuta dall’OAT, secondo cui «un Consiglio dell’Ordine non può avviare un procedimento disciplinare a carico di un proprio iscritto – quando sia indagato per fatti di rilevanza penale e quindi anche per mafia – a prescindere dall’esito del procedimento penale», è, secondo l’associazione Professionisti Liberi, priva di fondamento, dato che confonde il piano giudiziario con quello deontologico e, come conseguenza, consente a «centinaia di mascalzoni conclamati, condannati anche in via definitiva, di esercitare la professione indisturbati».
Alla fine della propria lettera, l’OAT ha poi espresso la disponibilità ad un confronto con il procuratore Grasso e l’Autorità giudiziaria, con l’obiettivo di «definire le modalità secondo le quali per mafia, o per altri reati gravi nei confronti della società, si possa procedere tempestivamente alla sospensione cautelare dell’iscritto all’Albo»: apertura che l’Ordine degli Architetti di Palermo (tra i tanti sottoscrittori del documento) ha fatto immediatamente propria deliberando, in data 21/4, la propria costituzione a parte civile nei processi di mafia a carico dei propri iscritti.
Sono passate poco più di due settimane dalla pubblicazione dell’articolo ma non è ancora chiaro, nonostante la delicatezza del tema, quale sia l’attuale situazione disciplinare interna all’Ordine degli Architetti di Torino: quanti sono gli architetti torinesi operanti iscritti a procedimenti penali? E quanti di questi per mafia?.
Se da un lato è comprensibile che l’esercizio della professione dell’architetto possa comportare coinvolgimenti in procedimenti civili e/o penali – è infatti ingenua l’ipotesi di un Ordine composto esclusivamente da chi non abbia mai messo piede in tribunale – è necessario ricordare che gli Ordini professionali hanno come compito principale la tutela dei cittadini (riguardo a prestazioni professionali che, essendo di tipo intellettuale, non sono sempre valutabili secondo standard normativi rigorosi) e, solo in seconda istanza, quella dei propri iscritti (garantendo, ad esempio, la congruità degli onorari applicati). In questo senso, è più che auspicabile che gli Ordini toccati dalle parole del procuratore Grasso si diano quanto prima da fare per risolvere una questione etica che mette oggi in cattiva luce tutte le categorie professionali da loro rappresentate.
Poco prima della pubblicazione dell’articolo di Eleonora Bianchini, il presidente del Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori, Leopoldo Freyrie, ha pubblicato un accorato appello alla luce della presentazione di una bozza di legge sulla liberalizzazione delle professioni, che comporterebbe l’abolizione degli Ordini professionali, e che per il momento non ha avuto (prevedibilmente, dato che la grande maggioranza dei parlamentari italiani è composta da professionisti iscritti ad un Albo) alcun seguito. Scrive Freyrie che «gli architetti italiani vogliono mantenere le loro idee e le loro matite libere dai condizionamenti di un sistema basato esclusivamente sul conseguimento del risultato economico», chiedendo al Parlamento di «riaffermare e sostenere il ruolo dell’etica professionale, unico principio di civiltà capace di regolare il mercato»: posizione condivisibile in linea di principio anche se, alla luce delle rivelazioni de «Il Fatto Quotidiano», risulta evidente come l’eroica immagine dell’architetto italiano offertaci dall’appello Siamo liberi architetti («vogliamo, anzi pretendiamo, il rispetto dovuto a chi impegna il proprio intelletto e le proprie risorse tecniche ed economiche per contribuire allo sviluppo sostenibile dell’Italia senza mai aver avuto il sostegno economico o fiscale dello Stato, pagandoci le nostre pensioni, impegnandoci con passione non solo a sbarcare il lunario, ma a difendere il paesaggio e a migliorare la qualità dell’habitat») vada seriamente rivista, nell’ottica della restituzione di una realtà molto più complessa e molto meno idillica.
Queste tre lettere (dell’OAT, dei Professionisti Liberi e di Freyrie) ci obbligano a interrogarci sulla necessità, oltre che sulle responsabilità, dell’istituzione “Ordine”: che un architetto sia in grado di lavorare senza far parte di alcun raggruppamento professionale a numero chiuso, come succede ad esempio in Spagna (dove l’iscrizione al Colegio de Arquitectos è facoltativa e risolta con il semplice pagamento di una quota annuale), è un dato di fatto. Che l’inserimento in un Ordine faciliti, grazie ai servizi messi a disposizione degli iscritti, lo svolgimento della propria attività (quando questo avviene), anche. Che la presenza di un Ordine garantisca la qualità delle prestazioni erogate dai suoi iscritti è poi tutto da verificare. Ma non può passare inosservato come una professione il cui accesso sia regolamentato da chi quella professione già la svolge, e non dallo Stato, non sia “libera” per definizione.
Così come non ha senso condannare tout court i tanti Ordini degli Architetti italiani, altrettanto ingenuo sarebbe non porsi il problema della loro funzione e del loro funzionamento. Le tre lettere mettono infatti in luce solo alcune delle frizioni che questo meccanismo, oggi, si porta naturalmente addosso: ve ne sono sicuramente molte altre, in attesa di venire a galla. È dunque possibile che sia necessario riformare queste istituzioni, come lo stesso appello del CNAPPC propone, o semplicemente aumentare i controlli su di esse: in entrambi i casi, appare evidente come lo “sforzo etico” richiesto da Freyrie al Parlamento debba essere urgentemente applicato su tutti e due i fronti.
Davide Tommaso Ferrando
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