massa critica | francesco ranocchi
In un commento a caldo sulla recente vittoria del Pritzker Prize da parte degli RCR Arquitectes, pubblicato su Il Giornale dell’Architettura poche settimane fa, suggerivo come l’interpretazione regionalista del loro lavoro promossa da giuria, critici e giornalisti svilisca non solo il valore del noto premio – sostanzialmente assegnato a bravissimi professionisti (e nulla più) – ma anche il valore dell’architettura degli RCR – frettolosamente premasticata per esser data in pasto ai media. Tali considerazioni risentivano di un’allegra scampagnata a Olot condotta l’estate scorsa insieme a Francesco Ranocchi, durante la quale visitammo un buon numero di progetti realizzati da Aranda, Pigem & Vilalta, confrontandoci su di essi senza esclusione di colpi. Se il testo sul GDA riassume (per sommi capi) il mio punto di vista (che sono lungi dal rinnegare), questo bel post di Francesco argomenta, in maniera ben più approfondita e articolata del sottoscritto, le ragioni per cui l’architettura degli RCR vada tutt’altro che sottovalutata, anzi – e vi anticipo fin da subito che non sono le ragioni della giuria del Pritzker. DTF
RCR Arquitectes / Parc de Pedra Tosca / Les Preses / 2004 / source
È probabile che la maggior parte di chi legge abbia conosciuto i lavori degli RCR Arquitectes dalle pubblicazioni e quindi abbia potuto visitarne alcuni. A me è successo il contrario: prima ho visto i lavori realizzati e poi le rispettive pubblicazioni. Un incontro che non lascia indifferenti.
Sono portato a mantenere un’impostazione fortemente critica rispetto a ogni tipo di velleità di autoaffermazione dell’architetto portata avanti a scapito della qualità del progetto, o sottomettendolo a forzature marcate e ingiustificate; non è una forma di moralismo, ma il riflesso della natura profondamente etica che ha per me la professione dell’architetto. Similmente, disprezzo la manipolazione dell’effetto globale del progetto alla ricerca di consenso da parte del pubblico, tanto più se tale manipolazione determina il livello del progetto stesso. Di qui la mia diffidenza per stilemi appariscenti, per clichés formali e compositivi, per stramberie o stitichezze gratuite, per monumentalismi di ogni tipo, soprattutto se di epica incerta o malcelata prosaicità, o per proclami umanitari che nascondano invece meschinità d’interessi.
A un primo sguardo i lavori degli RCR con i quali continuavo a imbattermi qui, in Catalogna, sembravano proprio corrispondere a vari di questi punti: cose aggiunte per ottenere effetti alla moda, mani calcate su alcuni elementi per aumentarne la spettacolarità, eliminazioni di altri che sarebbero stati difficilmente inscrivibili nel gioco, compromettendone l’effetto… e così via.
Vivevamo a Begur, dove gli RCR hanno progettato un centro civico e un parco: una presenza forte e insieme una quantità di assenze sconcertanti per chi abbia un minimo di considerazione per il programma funzionale: l’edificio è per un terzo una rampa, per un terzo una sala vuota con quattro piccoli parallelepipedi ben ritmati ma senza una funzionalità definita, per un terzo un portico di passaggio verso un ambito aperto al centro del parco, che lo avvolge come una corona.
RCR Arquitectes / Parc de l’Arbreda / Begur / 2006 / source
Certo, l’assenza di un programma dettagliato procede da una certa leggerezza e genericità dei progetti pubblici nella penisola iberica degli ultimi decenni, promossi in fretta per dotare le varie municipalità di una serie di servizi per esigenze quantomai generiche e sporadiche, spesso solo a testimonianza dell’intervento politico (e del sistema di gestione del tesoro). Ma, progetto dopo progetto, l’osservazione di queste assenze negli RCR mostrava un carattere troppo forte per essere liquidato in maniera così sbrigativa.
Mano a mano andavo infatti riconoscendo qualcosa di simile nell’elementarità delle costruzioni rurali catalane, caratterizzate dalla presenza di pochi principi imprescindibili e di alcuni arredi-chiave (e nessun altro), ritrovandola poi nella tipizzazione delle case urbane (a un corpo, un corpo e mezzo, due corpi), negli oggetti tradizionali ancora in uso e, in generale, in modi e costumi della regione.
Nel frattempo si andavano creando occasioni d’incontro e conoscenza personale, mentre l’organizzazione dei seminari estivi nell’Espai Barberí, una vecchia fonderia diventata il centro d’attività degli RCR, contribuiva non solo a mostrarne l’attività più da vicino, ma a riconoscere e comprendere meglio una certa visione dei tre architetti. Sì, la parte che vive come studio è compiuta, nella linea dei loro progetti più conosciuti, ma è questa solamente una piccola parte del complesso, altrimenti rimasto come nel giorno della chiusura della fonderia, eccezion fatta per qualche minimo intervento e un padiglione nel patio: ancora, assenza.
RCR Arquitectes / Espai Barberí / Olot / 2006 / source
Andrei Tarkowsky ci parla della necessità di comprendere la specificità dell’arte cinematografica: afferrare il tempo nella sua immediabile relazione con “la materia stessa della realtà che ci circonda ogni giorno a ogni ora”1.
Come storici, critici o architetti che parlano prolissamente di tutto, spesso trascuriamo di porci questa stessa domanda: qual è la specificità dell’architettura? E non vale rispondere genericamente “lo spazio”, perché la parola da sola non chiarisce nulla: questo spazio è necessario comprendere cosa sia, per afferrarlo come Tarkowsky chiedeva di afferrare il tempo – non la misura generica del tempo, ma iI tempo “fissato nelle sue effettive forme e manifestazioni”. Esistono più aspetti dello spazio architettonico, non solo quelli caratterizzati da una struttura concettuale particolare o da una conformazione complessa. Tali aspetti offrono esperienze diverse, possono essere abitabili in una forma densa o rarefatta, da percorrere o da contemplare, o tutte queste cose insieme, ma perché si tratti di spazio architettonico, realmente, bisogna andare oltre. Quando il tempo di cui parla Tarkowsky vive nella nostra architettura, ecco, lì c’è lo spazio architettonico: il progetto si trasforma in vita e non è solo qualcosa che funziona, che accoglie con efficienza le nostre attività – è qualcosa che fa parte del nostro mondo.
Per raggiungere questo bisogna fare scelte importanti. Decisive. Così l’architettura, progettando, andando oltre il presente, lavora proprio su assenze delle quali alcune, solo alcune, si trasformeranno in presenze. Questa selezione, la differenza tra ciò che vogliamo e ciò che invece è e sarà superfluo, è il momento fondamentale del progetto, la sua epifania.
Vuoti e pieni non hanno alcun senso, come architettura, se non seguono tale riflessione. Il reale che abiterà il progetto, che sarà ciò che ora è una assenza, è un significato ulteriore che diamo a ciò che viviamo. Esso appartiene, in senso antropologico, al campo della sacralità: ci presenta la nostra realtà fisica in un’altra forma, che è l’alterità ideale che vive oltre il progetto. Una alterità che appartiene all’affinità concettuale tra arte e sacralità, o che, più chiaramente, stabilisce il comune campo semantico tra le due espressioni umane. Anche quando è dissacrante. Ed è proprio tale campo comune a forzarci a usare il termine “sacralità”, del quale troppe volte si fa un uso immotivato – e sia chiaro, non stiamo affatto parlando di religione.
Certo, si può realizzare qualcosa in molti altri modi. La forma potrebbe seguire, altrettanto illusoriamente, necessità funzionali o ergonomiche esistenti o fittizie, schemi tradizionali anche se svuotati di significato, o dai significati travisati, o semplicemente, come spesso accade, riprendere un prodotto simile che ha avuto successo, o ancora manie personali e insegnamenti bene o mal recepiti. Certo. Ma finisce qui. In ogni caso lavoriamo su una visione parziale. L’architettura è altro: se non riflette un processo di comprensione del mondo, potrà essere più o meno utile, ma difficilmente sarà in grado di assumere ulteriori significati2.
L’architettura non è semplice reiterazione del gesto prometeico, dell’istituzione dell’artificio, anche quando si considerino i molteplici significati che ciò può assumere nella nostra cultura. La sua gestazione non è un semplice esercizio di abilità, ma l’abitare stesso, e per poterlo essere torna a coinvolgere uomo e natura, tratta la relazione tra lo spazio e le sue forze, il flusso del tempo e le sue imago, affermando così l’unità di vita e forma. E non discutiamo ora la natura illusoria implicita nel nostro vivere, ma ricordiamo l’altrettanto implicita necessità del superamento e dell’inversione della loro scissione nei codici, nei modelli e nelle prassi della società, la necessità di questo gioco di rimandi tra assenze e presenze.
Quando così non è, costruiamo caroselli, rimaniamo nel dominio della moda: non vi è allora differenza sostanziale tra i progetti delle “archistar” (sintetizzando nell’espressione il prodotto spettacolarizzato tipico della società del capitalismo avanzato, anche quando non dotato di marca, ma solo di specie caratteristica) e i metri cubi della speculazione edilizia: da un lato baracche per far soldi, dall’altro baracconate circensi a sugello e simbolo del medesimo modello economico. Vuota retorica del potere economico e dei “modelli di vita” che lo sostengono.
RCR Arquitectes / Restaurante Les Cols/ Olot / 2009 / source
Torniamo ai nostri amici di Olot e alle assenze-presenze nei loro progetti; assenze, riduzioni, ritorno a elementi essenziali; una caratteristica degli RCR che investe forme e conformazioni, materiali e, come principio, il programma stesso. Abbiamo lungamente scritto sulla traiettoria, nella società di massa, del prodotto architettonico che definiamo icastico; ossia dotato di una presenza immediatamente comprensibile e perciò capace di colpire l’attenzione del pubblico; di come, cioè, la capacità di rispondere a una logica pubblicitaria abbia plasmato l’architettura e la teoria dell’architettura nella società di massa. Un’architettura ridotta a forma-contenitore pubblicitario.
L’immagine prodotta dalla tensione verso l’essenzialità degli RCR sembra entrare pienamente in questa logica. Certo non si può credere, ingenuamente, che ci siano architetti di successo che non sfruttino almeno in parte questa forma per i loro messaggi, che è un modo d’espressione della nostra società. Ma è importante fare in modo che il discorso non finisca qui, che la riduzione, che l’assenza non sia presenza di un messaggio vuoto. Il messaggio degli RCR è sì una meditazione ossessiva sulla presenza dell’architettura, sviluppata con strategie perseguite con determinazione, ma è un messaggio ben preciso, che ci riguarda intimamente, soprattutto noi architetti.
Questa scelta forza anche la loro caratteristica più idiosincratica, la riduzione del programma: una riduzione, come abbiamo visto, che è in parte legata a un fattore antropologico, all’assenza di ridondanza che è uno degli aspetti della società catalana3. Ma è soprattutto un passo iniziale dovuto alla esigenza di coerenza, che altrimenti franerebbe fin dalle stesse premesse: è la necessità di seguire un’idea, creare le migliori condizioni per proteggerla fino alla sua realizzazione finale, come una fiamma da proteggere che si spegnerebbe subito, se sottoposta a troppe correnti. Certo, è un’opzione che non sempre si può sostenere: se è sbagliato dire che sia facile realizzare un progetto libero dalla necessità di un programma complesso, è anche vero che un certo tipo di scelte facilita il compito, ancor più se si vuole offrire un messaggio suggestivo reso in un linguaggio essenziale… e a questo punto rimane solo da domandarsi se ciò che si elimina sia superfluo, o se eliminarlo sia una forzatura inammissibile.
Gli RCR spesso riescono a eliminare il superfluo, e a farci vedere come tale, in un progetto, anche ciò che non siamo abituati a considerare tale, a cui difficilmente rinunceremmo. Ed è pur vero che quando il programma non può evitare certe funzioni, e a volte certe ridondanze, i loro progetti perdono mordente, acquisiscono elementi di maniera, scendono a compromessi con una lingua più banale. Però, la maggior parte delle volte, l’idea iniziale riesce a rimanere viva. Il telos dell’opera è mantenuto, quasi ad ogni costo: che sia un’impostazione concettuale, una soluzione inconsueta, un elemento di incontro con il paesaggio, un momento di confronto con l’ambiente, un gioco di colori, una conformazione inconsueta, o persino un effetto – in questo caso diremmo barocco – che giochi tra la presenza e l’assenza di una forma o la sua smaterializzazione apparente.
RCR Arquitectes / Espai de La Lira / Ripoll / 2005 / source
Così il passaggio dal genius loci ai lari sembra avvenire senza contrasti, ma questi ora parlano un linguaggio non più domestico, bensì ieratico: la relazione con la natura si esprime nell’idealizzazione della téchne, che diviene espressione assoluta di confronto nel quale la tecnica celebra la natura che l’accoglie e insieme la forza, afferma la sua diversità, costruisce un percorso che separa la convenzionale identità, mostrando le due facce dell’uomo. La semantizzazione del corpo architettonico partecipa della Stimmung del paesaggio, ma l’estende e traduce nei modi e nei segni propri del suo fare, del suo sentire, del suo immaginare: è un’unione che esalta il contrasto, vicinanza e estraneità, il bìos che (oltre la stessa zoé) sembra ridursi a un principio tettonico, in un insieme che non può fare a meno di darci una sensazione frustrante e insieme attrarci. L’abitare è un segnare lo spazio affermato attraverso gesti minimi, un ponte che dal nostro mondo di segni ci porta direttamente alla mineralità che ospita la vita, un’immagine che ci riflette e uno specchio dove siamo un poco intrusi…
Ora tutto questo sarebbe invivibile, insopportabile, inumano se una voluta semplicità, la concezione per elementi fondamentali, l’elaborazione attraverso materiali-base, non lo riadattasse ai nostri passi, al nostro respiro, e se questi nostri passi non fossero leggeri, un’orma minima, seppur ben percepibile. È, in fondo, l’estetica zen del wabi-sabi, ed è inscritta in questo principio anche la riduzione dei materiali, spesso ancor meno dei cinque stati di mutamento, ferro, vetro, pietra: questo è un punto di arrivo, per successiva sottrazione o per sostituzione, dagli iniziali tentativi in pietra bianca, all’unione marmo-ferro4, fino a tracciare i segni, piani e linee, quasi esclusivamente con acciaio Cor-Ten. Appunto un materiale frutto della tecnica, ma insieme caratterizzato, nella sua patina ossidata, da una presenza sabi, in sé già dotato del contrasto tra massima precisione plastico-geometrica e irregolarità imprevedibile.
Tale dicotomia si avverte negli interventi sul costruito, come l’Espai Barberí, la Casa Entremuros o la ricostruzione dei limiti urbani realizzata con La Lira: un gioco di versi senza parole e panorami prestati, dove i due paesaggi, dell’esistente e del progetto, dialogano ciascuno dal proprio mondo.
Altre volte riflessi, trasparenze e proiezioni di piani colorati sembrano voler trasfigurare le geometrie essenziali in un’atmosfera rarefatta, aurorale, dove sfumano i colori della luce, al polo opposto di quella umbratile e opaca dei progetti, o delle parti di alcuni progetti, trattate con una matericità asciutta e ruvida. A volte ancora gli stessi piani e oggetti colorati sono concepiti come elementi ludici e indici elementari, come nel caso delle scuole per l’infanzia. L’idea è forte, la resa difficile, il budget da un caso all’altro può fare la differenza.
Il gioco di riflessi e traslucenze torna anche in altri progetti, come i padiglioni e la gran sala del ristorante Les Cols, dove l’effetto d’insieme è frutto di un notevole, sorprendente virtuosismo. Le cabine-letto vetrate e sollevate a negare il più possibile la presenza corporea sono forse più adatte a un’esperienza sensoriale che a un riposo confortevole, forzando così la coerenza del segno fino al limite della complicazione. La copertura di ETFE, con il suo egualmente illusorio effetto di smaterializzazione, è un notevole picco tecnico, la cui immagine sfumata vive grazie a un semplice sistema di pompe di calore, astutamente nascoste, senza tanti problemi, nel retrobottega.
La stessa tendenza quasi illusionista, affidata al virtuosismo tecnico immaginativo, torna nei progetti a grande scala per Dubai. Qui, probabilmente, l’antinomia molto-poco, l’estensione obbligata del programma, del volume, della scala, porta a scegliere una strategia basata sull’invenzione sorprendente, sulla interpretazione plastica di principi di crescita geometrici o organici (con rimandi che da Toyo Ito portano fino alla Mesa City di Paolo Soleri), in una ricerca che sembra ancora in fieri.
Alcuni progetti sono invece realizzazioni estremamente elementari, dove è minimo lo scarto che fa la differenza rispetto a una scelta banale – si pensi alla pista verde dello stadio Tussols-Basil o alla presenza di alberi all’interno dell’anello. Ricordo lo Stadio delle Terme a Roma, con i suoi pini monumentali, giustamente intoccabili, all’interno della pista: un ostacolo all’attività che sopravviveva solo perché protetto dalle norme. Qui invece la scelta è volontaria ed è un semplice gesto capace di offrire un cambio di prospettiva.
RCR Arquitectes / Pista de Tussols-Basil / Olot / 2002 / source
Rimane qualche perplessità circa l’abilità nella promozione della propria immagine, che sembra seguire strategie simili a quelle in uso in Catalogna da parte dei molti cuochi stellati, e probabilmente non è un caso che gli RCR abbiano lavorato spesso a contatto con questi fenomeni mediatici capaci di sfruttare in una forma limite il proprio messaggio, riducendo il cibo a un prodotto portato agli estremi esiti di un sofisticato processo di marketing, dove la rottura della norma diventa cliché, scaltra e manierata sovversione delle convenzioni che francamente annoia e ricorda tanto la favola del re nudo. Certo la promozione dell’immagine è oggi fondamentale per un architetto, e chi è senza peccato scagli la prima pietra: qui, e non solo, c’è una corsa a seguire i processi di marketing più efficienti e a ridurre le proprie idee a prodotti altamente vendibili. Come amanti della buona cucina e della vera gastronomia, speriamo che Rafael Aranda, Carme Pigem e Ramon Vilalta continuino soprattutto a fare buona architettura.
In generale la resa del telos artistico è un obiettivo arduo quando si scontra con un’ordinarietà quotidiana che non sa riconoscerne, o non ha tempo e modo di riconoscerne le qualità: a vedere oggi, in un giorno qualsiasi, la Casa per un fabbro e una parrucchiera, o nell’immagine di Isao Suzuki, sembra di osservare due mondi differenti. Certo, è una piccola casa, con ambienti per lavorare, senza pretese… è un progetto, tra l’altro che risolve bene l’organizzazione degli spazi, della casa e del lotto, e ha un suo carattere deciso. Ma oggi, con l’erba finta, un rampicante triste che aggredisce timidamente la pulcra superfice, trattenuto da una griglietta di metallo, circondata dal campionario edilizio di una squallida urbanizzazione, la piscina gonfiabile sullo sfondo, i panni ad asciugare… la transitorietà delle cose che vi trascorre non sembra essere l’oggetto di profonda meditazione del wabi-sabi, ma un’attività che si svolge frettolosa e distratta. Eppure Suzuki ha visto qualcosa che c’è, la sua sensibilità ha saputo cogliere quei significati che gli architetti hanno consegnato al progetto e che conservano la lettura della vita in una trasfigurazione poetica. Qualcosa che è nel progetto sin dai primi schizzi che lasciano percepire future luci e ombre. L’ha visto in un aspetto della realtà, in una forma della vita. Un altro giorno, un giorno qualsiasi, questa ne ha assunto o ne assumerà un’altra, non più fatta degli elementi imprescindibili a rifletterne il flusso, ma del flusso stesso, con la sua casuale, irriflessa presenza, e ci piace vedere dove queste due realtà si incontrino, dove gli angeli scendano sulla terra, e viceversa. Dobbiamo forse rinunciare a esprimere tutto questo? O saranno validi solo i progetti che esplicitino il contrasto e il compromesso, mostrando una realtà sottotono, ironica e caricaturale, incongruente? Senza nulla togliere a quei progetti che si sforzano di manifestare disagio nei confronti del nostro momento storico, fino al limite, certo, degli attestati insopportabilmente didascalici. O, al contrario, ha qualche interesse, al di là del valore economico e della funzione di calamita-luna park, la superproduzione ridondante dei grandi studi?
Certamente, al di là del momento progettuale, c’è da chiedersi queste architetture che simbologie e che processi di identificazione producano, in una società che mercifica tutto e dove l’architettura e il design acquisiscono valore in quanto immagini di successo, per diventare cose nel gioco esibizionistico della funzione, baluardo del senso di appartenenza ad un illusorio sociale; come venga elaborato il messaggio di questi spazi scarni, ascetici, dove le cose, i nostri oggetti, sembrano non avere un posto, esser fuori-luogo, e il luogo è ridotto a cosa minima; che dialettica nasca da questi progetti, come si scontrino con l’affastellamento di merce che caratterizza il nostro ambiente, e come si trasformino a loro volta nel processo generale di mercificazione; quanto dell’originale intenzione artistica rimanga e se questa reazione al rumore ambientale non sia niente più di un ulteriore episodio, di un ulteriore prodotto; se finisca, come affermerebbe Baudrillard, “nel registro dell’offerta e della domanda”. Ed è chiaro che il linguaggio degli RCR, capace di consolidarsi in un marchio di fabbrica riconoscibile, si adatti perfettamente a queste dinamiche.
RCR Arquitectes / Casa del ferrer i la perruquera / La Canya / 2002 / source
In un testo pubblicato durante la redazione di questo scritto Fredy Massad5, attaccando la logica del Premio Pritzker, riconosce la qualità dell’architettura degli RCR, che definisce elitista e puritana. Se da un lato il sofisticato messaggio di sobrietà, precisione e inventiva degli RCR può facilmente rispondere a una posizione elitista, è altrettanto vero che un’analoga lettura, ancor più di superficie, contribuirà invece all’aumento dei campionari edilizi scopiazzati dalle riviste che ammorbano il nostro paesaggio: è il gioco della sfera pubblica contemporanea, ovvio, quel che è importante è considerare se e come altro vive al di là di questa superficie.
Le visioni architettoniche degli RCR, tradotte in ineffabili costruzioni della tecnica, presiedono il proprio avamposto, che ospitino i sofisticati aiku fotografici di Suzuki, lo scempio di un parco giochi gonfiabile, una sardana o una calçotada popolare, il passaggio attento o distratto di molti altri. E lo presiedono con la propria originalità, la propria elementarità, la propria misura e la propria enigmatica chiarezza: a volte con certa pretenziosità, perché la ricerca formale è spinta al limite, o tratta e rielabora tradizioni riconoscibili; a volte trascurando, negando o nascondendo limiti ed esigenze della costruzione; a volte accogliendo, a volte commentando e a volte soffrendo il passaggio del tempo… ma sempre bilanciando il tutto con una semplicità capace di far dialogare l’impalpabilità dell’idea con la concretezza della materia.
Soulages li sceglie per la loro incisività e il suo museo, in immagine, fa il giro del mondo. Gli studenti (e gli architetti) li prendono a esempio, saccheggiando i vari numeri de El Croquis a loro dedicati. Arrivano i premi, i riconoscimenti, le critiche: l’avamposto mostra adesso la sua altra faccia, ci fa capire che è anche un baluardo estremo, dove l’architettura conserva, con il suo linguaggio, con i suoi elementi, alcuni dei significati della nostra vita. Non tutti certo, e molti troveranno a mancare alcuni messaggi. Ma gli RCR hanno operato una scelta, hanno deciso di andare a fondo in un campo dell’espressione architettonica, di tracciare il proprio percorso in un paesaggio specifico, che è universale solo in un modo assolutamente particolare, anche qui selezionando, eliminando gli elementi fuorvianti, identificando con precisione i punti cardinali, scegliendo con cura l’oriente da seguire. Ed è lì, soltanto lì, che possiamo incontrarli.
Note
1. Andrei Tarkowsky, Atrapad la vida. Lecciones de cine para escultores del tiempo, Errata Naturae, Madrid 2017, pag. 19.
2. Per questo è travisante dire che l’architettura non è un arte perché risponde a funzioni pratiche: è invece un’arte proprio per questo, per il modo in cui risponde a questa necessità.
3. Non il solo, convivendo questa semplicità con la stima per la sovversione delle convenzioni: Seny i rauxa, sensatezza e impulso sovversivo. Si pensi ad Antoni Gaudì o Lluís Domènech i Montaner, a come questi aspetti entrino nel loro lavoro, e ancora, a quanta semplicità si celi persino nelle complesse meraviglie di Enric Miralles.
4. Scelte problematiche, insufficienti a garantire una corretta e stabile esecuzione dell’idea.
5. Fredy Massad, La ciclotimia del Pritzker, in La Viga en el Ojo, 16 Marzo 2017.
Autore
Francesco Ranocchi è architetto e storico dell’architettura. Nel 2005 con Nadina Zander fonda lo studio awarquitectes, con sede a Girona (Spagna).
Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.
Lascia un commento