Francesco Garofalo in un disegno di Wes Jones
Lo scorso 14 agosto è scomparso, dopo una breve malattia, Francesco Garofalo, architetto, docente, e per chi scrive, un maestro. La prima volta che mi sono imbattuto in Francesco, è stata circa quindici anni fa come studente alla scuola di architettura di Pescara.
Non fu un incontro di persona. Ero iscritto al primo anno. Tra noi matricole circolava la voce di un professore generoso e gentile che faceva lavorare molto ma che aveva un’agenda chiara e precisa. Alla fine di quel semestre rimasi sorpreso non solo dalla maturità dei lavori dei suoi studenti, ma soprattutto da una certa continuità di temi e linguaggio, rafforzata dai disegni con la medesima grafica, dai plastici alla stessa scala quasi tutti in cartoncino bianco.
Tra i quattro laboratori del primo anno, tenuti rispettivamente da Aldo Aymonino, Paolo Desideri e Carlo Pozzi, il suo si differenziava per una regia solida, molto presente, quasi come se i sessanta e più progetti fossero variazioni di una sola mano. Allo stesso tempo, restituiva la sensazione di un lavoro collettivo.
Gli studenti del suo laboratorio erano molto soddisfatti. Francesco era puntuale, rispettoso, organizzato. I giovani aspiranti architetti potevano concentrarsi sulla progettazione perché al resto ci pensava lui. Soprattutto, alla fine del semestre, avevano tra le mani il progetto di un edificio. La grande attenzione che Francesco poneva al risultato finale differenziava la sua pedagogia dagli altri docenti come Aymonino o Desideri, che ai miei occhi sembravano più interessati al ‘processo’. Non condividevo quella che mi sembrava un’eccessiva omogeneità tra così tanti progetti. Tuttavia apprezzavo il loro essere edifici normali, dotati di senso. Alla fine del primo anno, mi trasmisero una sicurezza su che cosa fosse l’architettura. Provavo un sentimento di gelosia per chi aveva avuto la possibilità di studiare con il professor Garofalo.
Il nostro primo incontro come docente-studente fu al secondo anno, quando dovendo recuperare l’esame di Teorie e Tecniche della Progettazione, lo scelsi. Il primo approccio non fu dei migliori. Francesco era molto gentile con chi era in corso, meno con chi era fuori. Per lui che cercava di chiudere tutti gli esami alla fine della sessione, i fuori corso erano una testimonianza di un qualche tipo di falla nella didattica. Nonostante questo fu prodigo di consigli.
Avevo seguito lo stesso corso l’anno precedente con un altro docente e compresi quanto l’impostazione di Francesco invitasse a una maggiore riflessione critica sulle fonti, alla ricerca di una consapevolezza perché, come spesso ripeteva: “non possiamo giudicare o copiare Le Corbusier, o qualsiasi altro maestro moderno, come se operassero oggi”. Il compito assegnato era selezionare un tema da un’annata di riviste come Domus, Casabella, Lotus e scrivere un saggio. Se non ricordo male, scelsi l’anno 1989 di Domus. Confrontai Giulio Romano con Frank O. Gehry che aveva appena completato il museo di Vitra, accomunati agli occhi di un ventenne da un uso del linguaggio architettonico come espressione di una crisi culturale.
Francesco mi diede un buon voto ma liquidò il mio testo come un’apologia: “I contenuti sono buoni, ma in generale il testo mi sembra troppo apologetico. In particolare, mi riferisco ai suoi argomenti sul lavoro di Gehry”. Non capii molto il suo giudizio ma lo scrissi da qualche parte.
Cominciavo a interessarmi agli autori e alle architetture di quello che poi ho imparato a conoscere negli anni successivi come Decostruttivismo. Francesco non condivideva nulla del Decostruttivismo di cui criticava gli eccessi formali, la retorica dello Zeitgeist, il protagonismo dei suoi autori. L’anno successivo nel Laboratorio di Composizione III mi confrontai direttamente con questa sua avversione culturale. Nella prima revisione collettiva, tirò fuori il mio modello – influenzato dal concorso per la chiesa di Roma di Peter Eisenman – dalla distesa sterminata di modelli-scatola tutti abbastanza simili, dichiarando “questo merita una riflessione a parte”. Ovviamente quella riflessione non avvenne mai. Ci rimasi molto male. La mia compagna di gruppo intuì che sarebbe stato un semestre difficile.
Cambiai il progetto con l’aiuto di due assistenti molto bravi. Durante quel semestre, non feci mai revisione con Francesco. Il giorno dell’esame mi diede il massimo dei voti ma senza la lode perché le prospettive erano aberrate (tracce dell’influenza dei disegni di Zaha Hadid) e l’assistente lamentava una certa indisciplina durante il semestre. Come compresi più tardi,
Francesco cercava di trasmettere come l’architettura fosse un mestiere che procede per piccole modificazioni e non per grandi rivoluzioni. Non aveva simpatia per l’avanguardia, né tanto meno per l’utopia. Quasi come in un esercizio tipologico, attraverso la sua pedagogia ambiva a contribuire all’avanzamento della disciplina cercando di assorbire le individualità in una ricerca che assumeva tratti collettivi.
Dopo quell’esame, per alcuni anni non ho avuto più l’opportunità di seguire altri corsi con lui. Rileggevo continuamente il programma del suo corso sullo shopping, che avevo appena terminato, consegnato sotto forma di fascicolo illustrato e ricco di spunti di riflessione. Collezionavo i materiali dei suoi corsi attraverso i miei colleghi, fotocopiavo le dispense, leggevo i suoi interventi sui primi siti internet come arch’it di Marco Brizzi.
Mi mancavano gli arrivi in classe con borse piene di libri aggiornati, la maggior parte introvabile in biblioteca. Fu lui a introdurci al dibattito internazionale, alle pubblicazioni in inglese e a riviste come El Croquis.
Francesco era un docente molto apprezzato dagli studenti anche per la sua attenzione ai modi di divulgare la conoscenza prodotta all’interno dei corsi. Dopo la pubblicazione dei due volumi di Rem Koolhaas al GSD di Harvard, aveva deciso di organizzare le tesi di laurea sotto forma di seminari in cui gli studenti producevano collettivamente libri come introduzione al tema e per contestualizzare i progetti individuali. Il primo, Conversazioni sul Museo (2004), e il secondo Quanta Fuit (2005), che erano studi su come il museo era mutato negli ultimi tre secoli, e sulle sue forme recenti, furono per me una piccola rivelazione e riferimento su come sviluppare una ricerca in progettazione.
Con Francesco prendeva forma nella mia educazione, la figura di un architetto come un intellettuale impegnato, per cui elaborare una riflessione disciplinare sull’architettura significava, allo stesso tempo, riflettere sul suo ruolo politico e culturale. Rimanevo impressionato dalla presenza quotidiana de La Repubblica prima e de Il Riformista poi, nelle tasche della sua giacca, sul tavolo del suo ufficio. Mi confermavano come l’architettura non fosse soltanto una mera pratica professionale. Vedeva il recente pragmatismo come riflesso di un’incapacità di elaborare una riflessione oltre le congiunture quotidiane della professione.
Negli anni successivi, i nostri incontri accademici diventarono frequenti, il seminario tanto difficile quanto stimolante su Manfredo Tafuri e le prime letture in inglese della teoria e critica nordamericana, il percorso di tesi, il semestre come assistente, gli anni intensi del dottorato. Con il tempo apprezzavo la sua statura intellettuale, le sfide che si poneva come docente, architetto, l’attività istituzionale, il ruolo che assegnava alla scrittura, necessaria per una pratica critica.
Il tutto circolava in un fare architettura che da più parti lui stesso ha definito piuttosto come una ricerca.
Un modo divenuto necessario per mediare tra disciplina e circostanze che lui stesso guardava con estremo interesse e per ragioni diverse, in personaggi come Ludovico Quaroni, Aldo Rossi, Francesco Venezia, Diener & Diener, Caruso e St. John, nei giovani Christ e Gantembein e Baukuh.
Con il tempo diventammo amici e con altri colleghi di Pescara, frequentavamo Francesco anche fuori dall’università, di solito il martedì. In quelle sere parlavamo di tutto, della crisi del Partito Democratico, degli architetti emergenti in Italia e all’estero, del suo contributo alla nuova rivista San Rocco, degli incarichi come curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia e della Festa dell’Architettura di Roma, dell’ambizione di riformare il dottorato, della sfida di fare architettura in provincia, anche quando molto dinamica come lo era Pescara in quegli anni. Questa sua generosità di condividere le sue impressioni e dell’ascoltare le nostre, dimostrava la volontà di stabilire un rapporto tra docente, collaboratori e studenti, orizzontale, meno gerarchico di quello che era stato per la sua generazione. Anche attraverso questi momenti Francesco cercava di superare quella conflittualità tra architetti che era stato uno dei problemi dell’architettura italiana del secondo novecento.
La riforma dell’università diventò sempre più presente nell’agenda di Francesco e quindi anche nelle nostre discussioni. Dopo il processo di Bologna la burocrazia premeva per soluzioni rapide che non lasciavano troppo spazio a cambiamenti o miglioramenti strutturali. L’impalcatura cambiava da facoltà a dipartimenti, per insegnare era ora necessaria l’abilitazione, ma la formazione dell’architetto rimaneva carente, a causa di un sistema ancora troppo centralizzato e con pochissime risorse economiche. Pochi mesi dopo il dottorato, grazie a lui accettai di insegnare a Toronto, in Canada. In fondo credo fosse contento ma anche dispiaciuto di non essere stato in grado di procurarmi delle opportunità concrete per cominciare la mia carriera accademica in Italia.
Quando ci incontrammo a Toronto lo scorso aprile, per la mostra Public Ambitions all’Istituto Italiano di Cultura, non avrei mai immaginato che sarebbe stata l’ultima. Aveva deciso di tenere nascosto il male contro cui stava combattendo. La sua lezione nell’aula magna mi fece aprire gli occhi su quanto il suo modo gentile di trasmettere e insegnare, di chi non voleva mai incorrere nel rischio di essere troppo invadente, avesse lasciato una traccia profonda su quello che facevo.
E aveva avuto lo stesso effetto sugli studenti di Toronto, che mi ringraziarono per averlo invitato, confidandomi di aver assistito a una delle lezioni più interessanti degli ultimi anni.
A pranzo discutemmo della difficoltà di unire insegnamento e ricerca accademica con la progettazione in Nord America, e il progetto di dedicarmi alla didattica e all’attività pura di scholar. Con una fermezza insolita per lui, mi disse: “Non chiuderti, almeno non ancora. Non è quello che ci contraddistingue.” Come spesso succedeva nei nostri incontri, tirò fuori bozze di saggi, proposte per il nuovo anno accademico, il volume del suo laboratorio di laurea sulla ‘lacuna’, quello della mostra Roma 20-25 al MAXXI, un indice della sua ultima raccolta di saggi che tra poco uscirà per Marsilio, curata da Mario Lupano. Ma questa volta ripose la pila sulla seduta e continuò a gustarsi il pranzo. Dopo anni di dialogo intenso e ininterrotto sull’architettura era forse arrivato il tempo di concentrarsi sulla propria vita.
Autore
Roberto Damiani è Postdoctoral Fellow all’università John H. Daniels di Toronto e curatore del nuovo programma di mostre Italy Under Construction promosso e sponsorizzato dall’Istituto Italiano di Cultura a Toronto.
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