L’Expo è finita?

massa critica | pietro valle

Con il “vantaggio” di averla vissuta dal di dentro, Pietro Valle ci racconta alcuni dei tratti più problematici di un’esposizione universale che ha sancito, forse una volta per tutte, l’attuale riduzione della pianificazione a strumento di valorizzazione immobiliare, e dell’architettura ad arte cosmetica.

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Il fischio prolungato di un treno merci che passa vicino disturba il discorso di chiusura dell’Expo 2015 di Sergio Mattarella nell’Open Air Theatre gremito di folla. Il Presidente della Repubblica si blocca, si guarda intorno e poi riprende a parlare imperturbabile lasciando le sue parole coperte dall’eco del fischio. La realtà lasciata fuori irrompe nel luogo dell’evento espositivo quasi a voler ricordare la sua presenza. Si riappropria del suo territorio, un ritaglio di periferia chiuso tra infrastrutture, canali, autostrade e aree produttive che ha obbligato a incanalare migliaia di visitatori in lunghissime passerelle per rendere accessibile l’Expo dal mondo esterno. Quegli ingressi, veri propri interregni, hanno forse contribuito a creare un’aura di eccezionalità all’evento operando quasi come un rito di passaggio. Hanno però rimarcato continuamente l’isolamento dell’Expo dalla città e presagito l’incertezza sul suo futuro. Oggi che l’Expo è finita e non si sa ancora cosa si farà sul suo sito, quel fischio risuona ancora. I padiglioni vengono smantellati, l’enorme piastra infrastrutturale di strade, reti e accessi rimane.

I cordoni ombelicali che sono stati creati per raggiungere l’Expo, collegano oggi il vuoto con il vuoto e fanno ritornare alla mente tutta una serie di temporalità disgiunte che hanno accompagnato questo evento sin dal suo lancio:

– L’estenuante trattativa del Comune di Milano per acquisire l’area dal Gruppo Cabassi e le risultanti polemiche sul sodalizio pubblico-privato;
– L’incertezza, mai chiaramente esplicitata, di come rappresentare il tema prescelto, l’alimentazione sostenibile, all’interno di uno spazio fisico delimitato in un momento storico in cui l’informazione è ubiqua e immateriale;
– La difficile individuazione del ruolo dell’Italia come paese ospite di un evento di questa portata e lo scivolamento su cliché di identità nazionale che non hanno aiutato a definire una posizione nei confronti di un tema ecologicamente e socialmente responsabile;
– L’incerta attribuzione dell’autorità di pianificazione dell’insediamento con l’iniziale proposta di 5+1, poi del gruppo Boeri e la successiva epurazione di architetti e progetti da parte del governatore Roberto Formigoni (operata grazie al braccio armato della società regionale Infrastrutture Lombarde) con la gestione di quasi tutte le opere dell’evento attraverso il meccanismo dell’appalto integrato affidato alle imprese di costruzione (si pensi che solo il Padiglione Italia e gli edifici di servizio sono stati gestiti con un concorso architettonico aperto);
– L’affidamento da parte dell’Ente Expo dello sviluppo di alcuni progetti strategici (Padiglione Zero, Expo Center, Open Air Theatre, Centro giornalisti alla Cascina Triulza, ecc….) alla società Metropolitana Milanese con i preliminari già redatti dall’ente stesso e le fasi di progettazione successive affidate in gara ristretta con l’incognita del coordinamento di diversi progettisti come ormai avviene per tutti gli incarichi pubblici in Italia (chi scrive ha vinto la gara per il definitivo e l’esecutivo dell’Open Air Theatre e si è trovato a dover rifare completamente un preliminare insufficiente dal punto di vista tecnico e funzionale andando incontro a conflitti, ritardi e incomprensioni…);
– La riduzione del progetto urbanistico iniziale delle vie d’acqua a uno schematico incrocio di due strade principali, il Cardo e il Decumano, con i padiglioni posti trasversalmente ad esse e con l’eliminazione di quasi tutti gli elementi paesaggistici;
– Il ritardo accumulato nella fase pianificatoria che ha costretto l’edificazione a una corsa ad ostacoli con il risultato della cancellazione di diverse opere previste, di un diffuso non finito e di un generale mal costruito determinati anche dal suddetto spezzatino delle competenze delle varie fasi di progettazione;
– Le interruzioni dovute allo svelamento di meccanismi di corruzione legati all’affidamento degli appalti che ha ulteriormente ritardato la costruzione;
– L’apertura a sponsor privati avvenuta a ridosso dell’evento che ha letteralmente inondato lo spazio pubblico di stand commerciali non previsti e di aree interdette accessibili solo a pagamento (si pensi all’Open Air Theatre, inizialmente pensato come piazza-teatro aperta e poi affidato al Cirque du Soleil per eventi con biglietto, il quale è stato malamente transennato con barriere temporanee);
– L’ansia di risultato con la pubblicazione di successive statistiche di accessi di pubblico e di biglietti venduti quasi a esorcizzare la paura di un fallimento: la conseguenza più evidente di tale ansia è stata la modifica della politica degli accessi con l’introduzione di un biglietto serale ridotto per incentivare e l’affluenza;
– La fioritura di eventi e mostre temporanee nella città di Milano volte a capitalizzare sulla presenza dell’Expo che non hanno fatto altro che ribadire l’incolmabile distanza tra l’area dell’evento e il centro città, che ha continuato a operare come consolidato polo di attrazione basato su attività già in esso presenti;
– Il sorgere di operazioni speculative nell’immediato intorno dell’Expo (si pensi al compattissimo cluster di residenze a torre spuntate come funghi nell’immediato intorno dell’area che vedono il coinvolgimento di progettisti come Zucchi, Cuccinella e C+S o all’operazione Cascina Merlata della società immobiliare Euromilano firmata da Citterio+Viel e Sergio Caputo), le quali capitalizzano in absentia sulla levitazione del costo delle aree;
– Lo smantellamento incompleto dei padiglioni espositivi, i quali avrebbero dovuti essere tutti smontabili e riciclabili su richiesta dell’Ente Expo, e che ha invece visto la defezione di parte delle imprese di costruzione che li hanno eretti in quanto essi non erano stati tutti pensati con tali caratteristiche;
– La difficoltà a pensare uno sviluppo per il sito l’Expo dopo la fine della manifestazione con la gara per l’assegnazione dell’area andata deserta nel novembre 2014;
– La mancanza di pianificazione pubblica del post-Expo dopo il flop della vendita dell’area con l’annuncio (ancora in corso) di improbabili megaprogetti istituzionali che continuano a ribadire che non si è pensato a nulla;
– La perdurante difficoltà a collegare quest’area con un intorno, il quale si sta oggi sviluppando senza avere bisogno di essa.

Visti in sequenza, questi eventi compongono un quadro inquietante di assenza di un progetto, di incompetenza della classe dirigente e politica, di lotte di potere senza una regia unitaria; di continua revisione, di opportunismi e di colpi di coda dell’ultimo momento, di costante pressapochismo. Essi non hanno a che fare solo con l’architettura, vanno ben oltre ad essa, ma hanno pesantemente influenzato i risultati esperibili dal pubblico. Hanno spesso confinato il costruito nell’infelice ruolo di cartina di tornasole delle contraddizioni sopra elencate. Possiamo analizzare tale evidenza sviluppando tre coppie di temi: Spazio Pubblico/Interazione; Rappresentazione/Esposizione, Progetto/Costruzione.

Spazio Pubblico/Interazione

cardo-decumanoCardo / Decumano

1) Un progetto di insediamento collettivo ad alta interazione come un’esposizione internazionale richiede un’idea riconoscibile di spazio pubblico condiviso dalle diverse espressioni individuali delle nazioni ospitate.
2) Un tale concept di spazio pubblico dovrebbe mantenere una propria identità (magari legata anche al tema dell’esposizione) pur permettendo ad altri ambienti di insediarsi flessibilmente al proprio interno.
3) Uno spazio pubblico riconoscibile dovrebbe orchestrare una coreografia che integra dinamicamente il pubblico come parte essenziale dell’evento che serve.

Queste tre affermazioni generali derivano dalla coscienza di una ricca tradizione di esposizioni otto-novecentesche le quali hanno tutte definito degli ambienti che le hanno identificate. Dalla grande serra del Crystal Palace alle gallerie vetrate di Parigi, dalle “zone” radiali della New York World’s Fair del 1939 fino ai giardini con padiglioni di alcune expo recenti, tutti gli eventi internazionali di questo genere si collocano con diversi gradi di libertà tra i due estremi del contenitore fuori scala che racchiude ambienti più piccoli e del landscape pittoresco che caratterizza i padiglioni come presenze da scoprire lungo un percorso. Sia nell’imposizione di un ordine assoluto sia nel liberismo democratico, un ambiente unitario accomuna e individualizza parallelamente le singole espressioni, producendo una dialettica tensione tra identità e differenze.

All’Expo di Milano 2015 un’ordine militaresco (quello del Cardo e del Decumano con relativa copertura) che allinea i padiglioni e i cluster come soldati in parata si accompagna a un irrisolto sfilacciamento del rapporto tra lo spazio pubblico principale e l’accesso ai singoli edifici. L’idea di insediamento di fondazione basato sul precedente romano poteva essere ottenuto con un più ampio respiro per presentare i fronti dei padiglioni sulla via principale. Invece è stato compresso da una densità che ricorda più una mall commerciale che una strada e riduce la visibilità dei padiglioni al solo loro lato corto costringendo i fronti longitudinali su vicoli di servizio. La copertura dello spazio pubblico, una tensostruttura progettata dal Politecnico di Milano, appare enorme con la sua larghezza di 35 metri in proporzione alla compressione dei fronti che si facciano su di essa. Nessuna caratterizzazione articola il terreno delle due vie principali e il pubblico vaga nella luce giallastra filtrata dalle vele alternativamente concave e convesse senza riferimento. La tensostruttura ha i tiranti diagonali esterni che distanziano i padiglioni infrapponendo una sorta di terra di nessuno profonda 6,75 metri tra la via principale e i loro accessi. Ad essa l’ente Expo ci ha aggiunto altri 3,25 metri, dislocando il fronte di lotti dei padiglioni di 10 metri dal passaggio pubblico coperto. I passi longitudinali della tensostruttura che misurano 10 metri costringono molti lotti dei padiglioni minori larghi 20 metri (ma anche quelli con il fronte più largo) a schivare il tirante centrale ponendo gli ingressi in posizione asimmetrica. Lo stacco laterale tra la copertura pubblica e gli accessi ai padiglioni e ai cluster ha costretto il rituale più frequente dell’Expo 2015, le code al loro ingresso, ad aver luogo all’aperto. Solo nei pochi padiglioni che hanno previsto un generoso spazio coperto prima del loro ingresso, tali code hanno potuto aver luogo protette ma tale responsabilità è stata ribaltata dallo spazio pubblico generale ai singoli edifici e comunque un tratto di spazio all’aperto è risultato di fronte ad essi. Chi, come lo scrivente, ha sperimentato una visita all’Expo durante un acquazzone estivo, ha visto decine di file di ombrelli in attesa sotto la pioggia mentre il percorso principale rimaneva sottoutilizzato. Il male peggiore non è, tuttavia, il deficit di comfort, ma la mancanza di relazione spaziale tra struttura principale e gli accessi ai singoli padiglioni. Nessuna copertura condivisa è stata possibile, nessuna sovrapposizione in altezza. La non-coreografia dello spazio pubblico dell’Expo 2015 che un visitatore può ricordare si articola tra le enormi distanze attraversate all’interno dei tunnel/passerelle per giungere agli ingressi, l’indifferenza dello spazio coperto del Cardo e del Decumano e le code all’aperto in attesa di entrare ai singoli padiglioni. Nessuno dei primi due spazi è particolarmente caratterizzato, il terzo è assente, un vero e proprio gap di risulta. La ristrettezza dei fronti affacciantisi sulla via principale ha costretto molti padiglioni a contorsioni formali per far vedere di lato e in profondità i propri spazi e invitare gli spettatori a una visita. Questo aumenta l’effetto di una collezione di oggetti non relazionati posti a lato di una strada indifferenziata e indifferente che corre a lato di essi. Meno male che alcuni dei padiglioni hanno offerto al loro interno una memorabile esperienza collettiva. Si pensi solo alla grande rete sospesa del padiglione brasiliano di Arthur Casas o al paesaggio naturale con l’alveare tecnologico del padiglione inglese di Wolfgang Buttress. Queste singole esperienze, tuttavia, sono relegate all’interno dei padiglioni proprio per la distanza che la mancata orchestrazione dello spazio pubblico provoca tra la via principale ed essi.

“Quasi ci si accorge che l’impianto costruito è risultato da una manipolazione dello schema originale operata dall’Ente Expo e volta al massimo sfruttamento dei lotti ma non pensata per rendere percepibili i padiglioni che si affacciano sulla via principale”

Quali criteri, quali considerazioni, possono avere configurato un tale spazio pubblico? Sicuramente il Cardo e Decumano sono stati realizzati in versione impoverita rispetto al primo schema delle vie d’acqua e in assenza di spazi verdi, visto che molte sistemazioni paesaggistiche sono rimaste non finite o sono state cancellate in corso d’opera. Ma questo non basta a giustificare le mancanze di questo impianto insediativo. Sicuramente in esso vi è un’idea di architettura schematica che mescola riferimenti internazionali mal elaborati, opportunismo funzionale e frammentazione mediatica dello spazio, quest’ultimo visto come un palinsesto di spot pubblicitari. I riferimenti riguardano l’iniziale schema delle vie d’acqua del gruppo Boeri, Herzog & De Meuron e Burdett il quale univa un’idea acquatica, riciclabile e leggera a uno schema planimetrico assolutamente rigido (quello assiale con i padiglioni allineati, poi rimasto). Questo era forse mediato da una lettura di certe architetture funzionali che assommano realtà diverse l’una contigua all’altra derivata dalla moda del junkspace e della congestione metropolitana di Rem Koolhaas. Questa interpretazione superficiale, una volta esautorati i progettisti e tolti gli elementi ecologici (acqua e verde), ha rivelato il suo vero volto: quello di un impianto funzionale di massimo sfruttamento delle aree e eguale affaccio dei tenants degno di un centro commerciale o di una infrastruttura di transito (non stupisce che l’Expo assomigli alla limitrofa Fiera di Milano in cui Fuksas ha fatto la cosmesi su un simile impianto progettato da un team di ingegneri e architetti e tutto concentrato su un asse lineare). Non c’è nulla di male nel perseguire uno schema lineare e a reticolo regolare in cui la suddivisione insediativa, l’urbanistica, è completamente separata dalle architetture che ne occupano i lotti tutti uguali, come nella tradizione della città americana. Il problema è che anche un impianto così restrittivo va dimensionato, proporzionato e articolato: la sua qualità sta nelle prospettive che i suoi spazi sanno aprire, nell’introduzione di gerarchie all’interno di un sistema che pone tutti sullo stesso piano, nelle variazioni alla regola. All’Expo, invece, il mancato proporzionamento tra la strada principale e i lotti dei padiglioni che si affacciano su di essa, separati dallo scarto dei tiranti della copertura, crea spaesamento. Quasi ci si accorge che l’impianto costruito è risultato da una manipolazione dello schema originale operata dall’Ente Expo e volta al massimo sfruttamento dei lotti ma non pensata per rendere percepibili i padiglioni che si affacciano sulla via principale. La tanto celebrata teatralità della tradizione italiana della strada (uno dei cliché venduti in fase di promozione dell’Expo) scompare in un generale affastellamento ai lati di uno slargo indifferente. Questa percezione è rafforzata dal riempimento dei vuoti lasciati tra le parti con una profusione di stand commerciali, come si è detto giunti all’ultimo momento, che rendono ancora più difficile la lettura dei padiglioni nazionali e dei cluster tematici dallo spazio centrale. L’arrivo dalle passerelle/tunnel pedonali che congiungono l’Expo con le stazioni della metropolitana e i parcheggi pubblici è un altro slargo assolutamente neutro posto trasversalmente ai due assi principali: si fa fatica a capire in che direzione andare e dove comincia veramente l’esposizione. Questa non-introduzione al sistema rigido del Cardo e del Decumano ne accentua ancor più la natura indefinita. Non stupisce che tale schema rafforzi le ambientazioni spettacolari presenti all’interno dei padiglioni. E’ lì che il pubblico vuole rifugiarsi per sfuggire alle prospettive in(de)finite degli assi principali, è lì che i progettisti delle singole strutture hanno posto tutte le loro energie per difendersi dallo spazio pubblico principale. Persino l’Albero della Vita dello scenografo Marco Balich è una reazione al vuoto dello spazio pubblico: l’unica struttura assiale e visibile in prospettiva è un’interruzione di esso, un fondale che dichiara che qui tutto termina. All’Expo 2015 la teatralità spinta di molti padiglioni e strutture è funzionale a creare delle isole attrattive all’interno di una generale indifferenza delle strutture l’una verso l’altra. In questo senso esso funziona come un palinsesto televisivo volto a creare un equo share tra programmi alternativi. La progettazione contemporanea (urbanistica, architettonica, espositiva, scenografica) è stata gradualmente infiltrata da considerazioni derivate dalla manipolazione mediatica. L’Expo 2015 è un esempio della loro applicazione non filtrata da alcuna considerazione sulla differenza tra l’editing immateriale e lo spazio fisico. Nel primo le cose scompaiono a piacere, sostituite prontamente da altre attrazioni; nel secondo convivono insieme e condividono uno stesso ambiente e presenza materiale. Il non relazionarle pensando che l’una possa sostituire l’altra, produce un irrisolto accumulo di presenze conflittuali.

Rappresentazione/Esposizione

padiglione qatar 2Padiglione Qatar

L’occasione di un’esposizione ad alta presenza di pubblico che ospita strutture destinate a non durare è stata storicamente sfruttata dagli architetti per proporre strutture sperimentali e spazi ad alto valore comunicativo (anche se non sempre le strutture sono effimere, in diversi casi sono stati promossi edifici destinati a rimanere). Le expo sono concentrati di visioni del futuro e declinazioni di una reklamerchitektur che integra più forme comunicative in una vera e propria sintesi delle arti. Anche quando si tratta semplicemente di esporre dei manufatti o dare dimora a degli altri mezzi espressivi, le esposizioni offrono comunque un’occasione per riflettere sul ruolo dell’architettura in relazione alla comunicazione. Una mostra è in sé una pratica che costruisce dei paradigmi che impostano la lettura di un’opera o di un tema. Questi paradigmi diventano ambiente reale, definendo delle relazioni fisiche tra osservatore, oggetto, supporto e spazio nonché stabilendo un intervallo tra diversi manufatti che ordina la sequenza espositiva. Se la spazializzazione della comunicazione è il connotato delle esposizioni, esse hanno a che fare con la modificazione dell’ambiente e quindi con la sua progettazione. La storia dell’architettura moderna e post-moderna ha alcuni dei suoi passaggi fondamentali scanditi da edifici espositivi che sono dei veri e propri manifesti:

– Vi sono dichiarazioni di una nuova spazialità (si pensi al Padiglione di Barcellona del 1929 di Mies) o di un nuovo ambiente (il paesaggio olandese impilato in verticale di MVRDV a Hannover nel 2000);
– Vi sono sperimentazioni sul rapporto tra lo spazio pubblico generale dell’expo e la mostra del singolo padiglione (lo straordinario padiglione russo di Konstanin Melnikov all’Exposition des Arts Decoratifs di Parigi del 1925 tagliato in diagonale dal passaggio pubblico);
– Vi sono modelli di un nuovo abitare (il padiglione dell’Esprit Nouveau di Le Corbusier sempre a Parigi nel 1925, le case tipo dei giovani razionalisti italiani alle triennali di Milano degli anni Trenta o un caso destinato a rimanere permanente come Habitat a Montreal nel 1967 di Moshe Safdie);
– Vi sono sperimentazioni tecnologiche e costruttive (un esempio tra tutti è il padiglione statunitense di Buckminster Fuller sempre a Montreal nel 1967, poi rinominato Montreal Biosphere);
– Vi sono sintesi delle arti (si pensi al padiglioni Liberty di D’Aronco a Torino nel 1902 o al padiglione Philips di Le Corbusier e Iannis Xenakis a Bruxelles nel 1958) o sperimentazioni spaziali delle nuove avanguardie artistiche (il padiglione surrealista di Salvador Dalì a New York nel 1939;
– Vi sono esempi di tour de force espositivi dove vengono sperimentate nuove forme di messa in mostra (si pensi alla parete ondulata del padiglione finlandese di Aalto a New York nel 1939) o casi in cui il pubblico stesso diventa un elemento espositivo ed è invitato a intraprendere un percorso tematico in cui è contemporaneamente osservatore e osservato (i padiglioni Breda di Luciano Baldessari alla Fiera di Milano negli anni Cinquanta);
– Vi sono architetture senza destinazione espositiva che espongono idee formali e spaziali nella tradizione della folly, il padiglione pittoresco isolato nel parco paesaggistico (si pensi ai Serpentine Pavilions a Hyde Park degli ultimi anni disegnati dai più famosi architetti internazionali come Ito, Siza, Gehry, Nouvel, ecc…);
– Vi sono, in controtendenza all’effimero, architetture erette in occasione delle expo che rimangono permanenti e costituiscono dei nuovi luoghi pubblici (il Palais de Chaillot all’expo di Parigi nel 1937 o la piazza coperta dalla vela di Alvaro Siza a Lisbona nel 1998).

E’ importante aver coscienza di una così ricca tradizione per comprendere come essa si è evoluta nei tempi recenti e come si è arrivati a quello che si vede all’Expo 2015 di Milano. L’architettura espositiva dei padiglioni nazionali e dei cluster tematici qui presente ha dovuto, innanzitutto, tenere conto di due importanti condizionamenti, uno generale e l’altro specifico di questo evento:

1) l’Expo ricade in un periodo storico, quello attuale, in cui la comunicazione immateriale accessibile a tutti in ogni momento e in ogni luogo ha superato qualsiasi forma di rappresentazione collettiva. Un’esposizione qui e ora non può fare a meno di confrontarsi con questo tema, il quale condiziona qualsiasi ambiente fisico. I padiglioni delle expo sempre più assumono forme comunicative che utilizzano supporti immateriali (installazioni, ologrammi, grandi schermi, video, stazioni web) ma non riescono quasi mai a incorporarle nell’ambiente, al massimo le supportano. In alternativa, cercano di mettere in scena degli eventi collettivi che si contrappongono alla disponibilità individuale di dati e informazioni. Questo succede anche a Milano: innanzitutto la concentrazione di tante informazioni in un unico sito appare un po’ fuori tempo nell’epoca della comunicazione ubiqua tanto che c’era stata una proposta da parte di Emilio Battisti e Paolo Deganello di sfruttare tale vantaggio dislocando un’expo sostenibile in vari punti della città per farla vivere con essa (un po’ come succede con il Fuorisalone ogni anno), idea innovativa ma subito scartata perché non capitalizzava sulla concentrazione di pubblico (e relativi capitali generati da essa). In secondo luogo, anche nel format di gruppo, gli ambienti di Expo 2015 non riescono a fuoriuscire dal ruolo di supporto alla comunicazione, non superano le innovazioni multimediali di tante esposizioni recenti e ricadono spesso in gran messe in scena che mascherano con la teatralità l’elusività di un problema generale, la comunicazione immateriale, di incerta risoluzione.

“Le modalità con cui il tema dell’alimentazione è stato messo in mostra all’Expo 2015 sono sostanzialmente due: installazioni spettacolari con gran display tecnologici che comunicano (spesso banalizzando) le più recenti scoperte scientifiche sull’alimentazione e allestimenti terzomondisti politically correct che esibiscono i temi della fame nei paesi in via di sviluppo in uno stile da mercatino dei prodotti alternativi”

2) Il tema dell’alimentazione sostenibile proposto per Milano 2015 non è facilmente riducibile a un formato espositivo. Esso ha risvolti legati alla ricerca scientifica-statistica ma anche politico-sociali e ricorda la non equa distribuzione delle risorse nel mondo. Corrispondentemente a questi due punti di vista (quello di chi detiene il potere economico-scientifico e quello di chi non ce l’ha) le modalità con cui esso è stato messo in mostra all’Expo 2015 sono sostanzialmente due: installazioni spettacolari con gran display tecnologici che comunicano (spesso banalizzando) le più recenti scoperte scientifiche sull’alimentazione e allestimenti terzomondisti politically correct che esibiscono i temi della fame nei paesi in via di sviluppo in uno stile da mercatino dei prodotti alternativi (con uno spiacevole retrogusto colonialista in cui l’Occidente crea una caricatura buonista del resto del mondo). Il modo più diretto con cui l’alimentazione è stata, tuttavia, posta al pubblico è una gran vendita di cibi con bar, ristoranti e punti ristoro incorporati nei singoli padiglioni e, soprattutto, negli stand commerciali spuntati come funghi e appartenenti ai peggiori brand globali di cibo sintetico che hanno vanificato non poco l’intento educativo della manifestazione. Se i primi davano all’Expo un piacevole sapore da fiera/bazar/luna park multietnico (forse la parte più collettivamente spontanea della manifestazione), i secondi la facevano ricadere nel più banale rituale commerciale.

A questi due limiti, si aggiunge un terzo aspetto che ha condizionato il modo di mostrare presente a Expo 2015 di cui si parlerà più compiutamente nel prossimo capitolo:

3) I padiglioni, vista la divisione tra pianificazione e costruzione messa in opera dalle procedure di incarico dell’Ente Expo, hanno adottato, per necessità o per opportunismo, una divisione tra struttura/costruzione e forma visibile/rappresentazione. Sono strutture stratificate, decorated sheds dove la prima non si vede ma supporta la seconda la quale è una scenografia applicata che non dialoga e non coinvolge il sistema costruttivo che la rende possibile. Questa divisione, integrandosi con le scelte indotte dai primi due condizionamenti, ha come conseguenza la radicale separazione della mostra dai contenitori o, in alternativa la magnificazione dei padiglioni stessi a oggetto di mostra senza alcuna relazione con quello che vi è contenuto all’interno.

I padiglioni, i principali edifici pubblici e il cluster dell’Expo 2015 ricadono quindi nei seguenti gruppi:

– Architetture iperformalizzate e scultoree che adottano una tarda versione dell’effetto Bilbao (con 25 anni di ritardo) per creare effetti spettacolari. Tali edifici spesso non mettono in comunicazione l’esterno con l’interno che è una black box per effetti speciali multimediali. L’aspetto curioso di questi edifici è che le forme architettoniche esterne (sghembe, blob, decostruttiviste, ipertecnologiche, pseudo-organiche e chi più ne ha più ne metta) non hanno nulla a che fare con i contenuti dell’alimentazione. Sembra quasi che l’architettura si metta in competizione con essi e, invece, ridotta a scenografia di se stessa, risulta assolutamente ridondante. E’ anche interessante notare come questo formalismo abbondi nei paesi che si sono più recentemente affacciati al capitalismo occidentale (ex-Repubbliche Sovietiche, Estremo Oriente e Paesi Arabi in primis) il che fa meditare su come le tendenze globali generano strascichi temporali e imitazioni tardive da parte degli ultimi arrivati che cercano di omologarsi….Sembra quasi che le cattedrali nel deserto dei neo-ricchi ritornino in questa Expo al luogo d’origine, quell’Occidente che le ispira e le lascia proliferare;
– Contenitori neutrali (meno frequenti) che usano la loro invisibilità per supportare insegne, schermi, rivestimenti e nuovi materiali (“etnici”, “naturali” o “ecologici”). Trattasi spesso di telai ortogonali realizzati in legno (il materiale più usato all’Expo di cui parleremo in seguito) o di scatole neutre. Qui l’architettura sembra dichiarare che lo spazio non si può misurare con la comunicazione ma può solo supportarla, l’edificio diventa un’impalcatura che spesso rimane nel retro. L’effetto teatrale/espositivo anche qui è rafforzato ma l’architettura che lo supporta risulta anche qui perdente, solo che, in confronto al primo gruppo, lo dichiara in partenza;
– Un unico caso (il padiglione del Qatar fatto a forma di enorme Jefeer, il tradizionale cestino cilindrico di foglie di palma per conservare il cibo) di tentativo di far corrispondere la forma architettonica al contenuto con un divertente effetto pop degno di un duck uscito da Learning from Las Vegas. Il tentativo, rimasto isolato, mostra come anche questa forma di figurazione ingigantita non incontri più il favore degli strateghi della comunicazione (e forse anche del pubblico) in quanto perdente nei confronti di qualsiasi rappresentazione immateriale (un ologramma costa e ingombra meno).

Non tutto è riconducibile a queste tre categorie, ci sono commistioni di esse ed eccezioni. Una di queste è il già citato Padiglione del Brasile di Arthur Casas con la sua mostra fluttuante su una rete mobile inserita all’interno di un rigoroso telaio spaziale ortogonale che ha attratto migliaia di spettatori nel suo gioco collettivo. Un’altra è il Padiglione dell’Olanda che ha evitato di confrontarsi con l’architettura e con la rappresentazione del tema dell’Expo, imbastendo una sorta di luna park/sagra dei cibi tradizionali (felicemente malsani) serviti da furgoncini stile anni Cinquanta e dislocati su un playground con giostre. Gli olandesi si sono presi gioco del tema e del tentativo di rappresentarlo all’interno di un tradizionale format espositivo. Il sorriso che ispira il loro padiglione è però amaro, dimostra l’impossibilità di riconciliare architettura ed esposizione aggirando il problema. In generale, le architetture dell’Expo 2015 sono penalizzate dalle espressioni della società dello spettacolo che cercano di incorporare. Non definiscono alcun nuovo spazio per esse e, come vedremo, nessuna forma di materialità tettonicamente coerente capace di supportare un’esposizione.

Progetto/Costruzione

PADIGLIONE CINA 1Padiglione Cina

Le architetture dell’Expo riducono al minimo comune denominatore l’unità tra struttura, materialità, funzione e spazio che ogni architettura dovrebbe relazionare coerentemente. Anzi, la ignorano bellamente e sfruttano, senza articolarla, una divisione delle parti degli edifici (soprattutto quella tra struttura e finiture) e delle competenze preposte a progettarle per il puro vantaggio economico di una rapida realizzazione e di un effetto comunicativo assolutamente superficiale. In ciò sono lo specchio di una globalizzazione avanzata che ha ridotto l’architettura a puro oggetto di consumo ma anche di una specifica situazione italiana che ha visto, sia a livello normativo sia nella prassi, la riduzione del ruolo dell’architetto a puro scenografo di una cosmesi epidermica che in realtà è gestita nel suo aspetto costruttivo dalle engineering e dalle imprese di costruzione.

E’ vero che l’unità tra costruzione, funzione e spazio è un mito modernista che ha visto negli ultimi decenni una revisione critica la quale ha dimostrato che essa è lungi dall’essere una realtà acquisita ma un orizzonte dialettico perennemente a venire e da porre in discussione. La teoria postmoderna, tuttavia, ha per lo meno declinato la disgiunzione tra costruzione, spazio e linguaggio architettonico. I suoi più intelligenti rappresentanti la hanno analizzata, scomposta, decostruita e risemantizzata in più soluzioni alternative mostrando come essa offra un territorio di indagine fondamentale per l’architettura. Anche coloro che hanno teorizzato il totale stacco tra forma e funzione nel capitalismo avanzato (Venturi e Koolhaas, tra altri) lo hanno sempre fatto in un’ottica di revisione critica delle tendenze spontanee del mercato. Le forze economiche che lo controllano tendono, invece, cinicamente a cavalcare la suddetta disgiunzione per operare una divisione del lavoro che corrisponde a parti specializzate dell’edificio (struttura e rivestimenti viste come lavoro grezzo e finito) attuate da progettisti diversi. Tale divisione è funzionale a una completa indipendenza e flessibilità delle parti di un edificio viste come porzioni autonome che possono cambiare in qualsiasi fase, anche durante la costruzione e dopo il completamento dell’edificio, per adattarsi alle esigenze di un mercato immobiliare sempre più volatile1.

In assenza di progettisti responsabili di tutto il processo che va dall’ideazione alla costruzione (esclusi già nella fase preliminare a scapito delle imprese e di tecnici specializzati a servizio) e vista l’emergenza dettata dai ritardi accumulati, l’Expo ha adottato la più insensibile prassi del dividi et impera nell’attribuzione delle competenze e l’ha elevata a sistema. Ai progettisti di massima (o a quelli provenienti dai paesi ospiti) sono sempre stati affiancati altri studi per lo sviluppo dei progetti esecutivi. Essi sono architetti (o, come vedremo, product designers e scenografi) raccomandati locali e società di engineering promosse dall’Ente Expo o dalle imprese aggiudicatarie dei lavori con il meccanismo dell’appalto integrato, un anomalia presente solo in Italia che permette alle imprese di fare il progetto esecutivo aggirando le specifiche delle fasi precedenti dei progetti e obliterando completamente gli originali ideatori. Non sorprende quindi la mediocrità degli edifici visti all’expo: essi sono il frutto di una gestione pragmatica che antepone sempre le esigenze del time and money alla coerenza costruttiva e alla qualità materiale. La responsabilità di questa situazione, tuttavia è anche di molti degli architetti stessi presenti all’Expo. Di fronte a una gestione dei progetti parcellizzata (che non è presente solo qui ma è ormai comune in Italia), gli architetti si sono adattati al ruolo che è stato loro imposto per non perdere gli incarichi. Sono diventati superficiali confezionatori di immagini renderizzate che essi spesso non sanno tradurre in una realtà materiale coerente e, anzi, è meglio che non lo sappiano fare in modo che il processo sia gestito da altri con più libertà. La traduzione di queste immagini in realtà costruita, segmentata in più specialità, non può che seguire la logica della divisione in parti e quindi di una tecnologia stratificata che separa le strutture (nascoste dietro la scenografia e quindi lasciate grezze perché non sono da mostrare) dalle finiture esterne e interne. In alternativa alla dissimulazione delle parti portanti, gli ingegneri all’Expo, i veri protagonisti della manifestazione, hanno realizzato alcune strutture a vista interpretando alcune suggestioni degli architetti e modificandole a piacere. Alla divisione stratificata delle parti di un edificio si è arrivati anche alla divisione palese, la quale è ostentata senza remore. Peccato che tale scelta non brilli per sintesi. Le realizzazioni degli ingeneri a Expo 2015 sono quasi sempre ridondanti. Alla struttura portante è spesso anteposta una struttura rappresentata che non ha altro ruolo se non quello iconico come se anche i tecnici si fossero fatti sedurre dalla divisione tra forma e funzione. La rivista Modulo ha dedicato un intero numero agli unsung heroes di Expo 2015, coloro che hanno veramente costruito le strutture della manifestazione. Questi non sono certo gli architetti ma i membri delle engineering, sempre in prima linea quando c’è un progetto altrui da ingegnerizzare, i luminari del Politecnico di Milano che hanno dato la loro consulenza per la creazione delle strutture che servono gli spazi pubblici e i capicantiere delle imprese che hanno ottimizzato la costruzione dei padiglioni. Non c’è quindi progetto che non sia stato rivisto pesantemente da queste figure che hanno operato a servizio del committente, l’Ente Expo, e, parallelamente degli appaltatori delle opere, impersonando così un conflitto di interessi che è stato completamente messo sotto silenzio.

“Di fronte a una gestione dei progetti parcellizzata, gli architetti si sono adattati al ruolo che è stato loro imposto per non perdere gli incarichi. Sono diventati superficiali confezionatori di immagini renderizzate che essi spesso non sanno tradurre in una realtà materiale e coerente e, anzi, è meglio che non lo sappiano fare in modo che il processo sia gestito da altri con più libertà”

Certo che anche gli architetti non se la sono passata meglio. La prassi dello spezzatino delle competenze all’Expo ha raggiunto un tale sviluppo che ha generato due tipi di progettisti di massima. Ci sono quelli che ci sanno fare e hanno proposto forme iconiche semplici facilmente traducibili con più tecnologie e quelli che non hanno saputo gestire il processo e sono riusciti a ingarbugliare le loro immagini quando sono diventate realtà. Tra i primi ci sono sicuramente i product designers milanesi, più disinvolti degli architetti nel pensare gli edifici come oggettoni ingranditi. Come altrimenti spiegare il successo di personaggi come Michele De Lucchi, autore dei montarozzi del Padiglione Zero, di Antonio Citterio e Patricia Viel, che hanno nobilitato lo skyline delle passerelle d’ingresso senza alleviare la sofferenza del chilometrico rito d’ingresso, o di Italo Rota con le sue vele incrociate all’ingresso del padiglione del Kuwait? Tra i secondi ci sono sicuramente i membri dello studio Nemesi, vincitori del concorso del Padiglione Italia e vittime di una paradossale trasformazione nel passaggio dal progetto alla costruzione. Il padiglione, una pseudostruttura organica che assomigliava a una foresta di fronde, è transitata dall’immagine di un intreccio di esilissimi steli a un pesantissimo (e costosissimo) sarcofago completamente opaco quando è uscita dalla cura delle engineering che hanno sviluppato l’esecutivo. Proprio questo edificio rende visibile il completo divorzio tra struttura reale e figurata: l’intreccio è diventato un casellario di componenti tutti diversi l’uno dall’altro che formano una carrozzeria esterna e quello che tiene su l’edificio è una baraccatura interna completamente nascosta e lasciata al grezzo. Nessun elemento fa nulla di più del proprio specifico ruolo: non c’è sintesi né relazione tra le parti. Se la classica tettonica modernista (quella studiata da Kenneth Frampton per intenderci) era una forma di figurazione delle forze che sostenevano l’edificio la quale articolava i membri portanti stessi, qui siamo giunti all’iperbole della superficialità postmoderna o, più tragicamente, al trionfo dell’incompetenza di chi adotta la divisione del significante dal significato perché non sa mettere insieme i pezzi. Quello che appare portante è una scenografia portata che poteva già inizialmente essere pensata come rivestimento invece di ingenerare un tale apparato ridondante per stare in piedi.

Coloro, come chi scrive, che hanno tentato di gestire una certa coerenza tra forma, costruzione e funzione hanno dovuto capire che all’expo 2015 ciò non era desiderato. Nell’Open Air Theatre lo scrivente ha dovuto combattere strenuamente per garantire un minimo di coerenza costruttiva ma è riuscito solo parzialmente nell’intento. Ha dovuto subire la sconfitta di un cantiere gestito malamente da altri e di un uso finale del manufatto mutato rispetto alle premesse di progetto (e improvvisato all’ultimo momento per renderlo accessibile ai soli acquirenti dei biglietti in vendita quando inizialmente era stato pensato come un’arena aperta) che lo ha fatto apparire insufficiente a svolgere la sua funzione. Polemiche a parte, tale gestione dei progetti pare abbia generato una specifica qualità eccessiva dell’architettura dei padiglioni dell’expo 2015. Se le parti di un edificio possono continuamente cambiare in corso d’opera, è meglio che non collimino, che esistano ognuna per sé. Per obliterare l’effetto di una totale mancanza di coordinamento, è meglio ingarbugliare i punti di incontro e lasciare i giunti aperti, staccare le parti, anzi, meglio moltiplicarle. Questo forse spiega l’immagine cumulativa, ridondante e stratificata di tanti dei padiglioni all’Expo. A questo destino non sono sfuggiti neanche molti dei progettisti stranieri che hanno pensato i padiglioni per i loro paesi e nell’eccesso sono incappate anche figure impensabili come Norman Foster che, con le onde del padiglione degli Emirati Arabi Uniti, ha composto un improbabile labirinto barocco.

Se guardiamo l’aspetto specificatamente tecnologico, la sindrome iconica e scenografica ha intaccato anche il rispetto per il vincolo fondamentale richiesto ai padiglioni di Milano, quello del loro completo smontaggio e riuso in altri siti. Il legno, materiale presunto “naturale”, “ecologico” e “riciclabile” ha avuto un grande successo a Expo 2015 ed è stato applicato in molte strutture con componenti prefabbricati (prevalentemente in lamellare) che si supponevano smontabili. Non tutti, però, hanno rispettato la richiesta del riuso. Il padiglione della Cina di Yichen Lu, ad esempio, ha incorporato le piastre metalliche per incernierare le sue grandi onde di copertura all’interno della sezione delle travi per non porle in vista. Tale scelta, formale e non costruttiva, non ha reso smontabili le strutture e le travi sono state tagliate e demolite a fine Expo. Più lungimiranti sono stati gli architetti dello studio X-TU che hanno progettato il cassettonato sospeso del padiglione francese con moduli separati o Herzog & De Meuron che hanno dato prova di semplicità ed eleganza con le capriate ripetute dei tre padiglioni Slow Food. Proprio con quest’ultima struttura, i due progettisti svizzeri hanno, almeno per una volta, ribaltato la fama iperformalista che li precede (il “nido” dello stadio di Pechino pare abbia ispirato il Padiglione Italia…) dimostrando come anche nel 2015 si possa ancora progettare una struttura tettonicamente e spazialmente coerente. Ma la Francia e Slow Food sono eccezioni a una generale tendenza che vede anche la costruzione travolta dalla dittatura della comunicazione. L’immagine della materialità ha ormai sostituito la materialità e i progettisti si trovano a fronteggiare una doppia realtà costruttiva con una struttura funzionale che sorregge una rappresentazione della struttura. All’Expo 2015 tale divisione, mutuata dal mercato, è stata definitivamente ufficializzata anche nell’attribuzione delle competenze di progettazione, le quali sono state anch’esse corrispondentemente divise. I risultati non rendono però percepibile alcun tipo di editing delle varie parti: gli edifici sono ridondanti e manifestano la sommatoria dei loro artefici invece di dissimularla.

Conclusione aperta

Valle Architetti Associati - Open Air TheatreOpen Air Theatre

Dall’analisi condotta, appare come l’Expo 2015, grazie anche alla sua condizione effimera, abbia accelerato una serie di tendenze internazionali (e italiane) volte a una radicale riduzione e parcellizzazione del ruolo dell’architettura. Tali tendenze, per ora assolutamente problematiche, non sono da ignorare, ma costituiscono il terreno reale operativo della professione su cui sarebbe il caso di confrontarsi. Una loro analisi aiuterebbe a individuare uno sviluppo per esse in prospettiva di una ridefinizione del ruolo dell’architetto in un modo contemporaneo sempre più frammentato. Forse il cattivo reale, espresso dalla gestione di Expo 2015, potrebbe paradossalmente anche aiutare l’architettura a fuoriuscire da una pericolosa tendenza a isolarsi nell’autonomia disciplinare (una prassi consolatoria adottata da tutta una parte del mondo accademico e della critica in Italia) e a ripensare il suo ruolo nella società senza dover imitare altre discipline. Se, da un lato, il rischio per la professione è quello del rifugio in una presunta specificità dell’architettura, l’altro è quello della dispersione in una tuttologia mediatica e superficiale. Il campo, tuttavia, è aperto, molti problemi sono da risolvere e questa è, comunque, una prospettiva. L’Expo è finita? Ufficialmente si, ma in realtà riverbererà a lungo.

Pietro Valle

[1] su questo tema vedi Pietro Valle, Nessuna Evidenza Materiale, in “Viceversa” 2, 2015, numero speciale curato dallo stesso autore sul tema “Il Cantiere”.

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