Not only history, but also criticism

massa critica | luigi manzione

Prima o poi si costruiranno discorsi critici capaci di osservare la deriva più turpe della produzione architettonica degli ultimi anni – similmente a quanto fecero Venturi e Scott-Brown con Las Vegas – con un occhio serenamente distaccato: una volta perduto il fascino – o l’astio – per queste immagini sempre più bizzarre, l’architettura del capitalismo globalizzato e del real estate finanziario (quella annualmente in mostra al MIPIM, tanto per intenderci) potrà divenire l’oggetto di analisi disciplinari volte a mettere in luce, in assenza di giudizio, il profondo vincolo che lega le sue forme alla società, all’economia e alla cultura del nostro tempo. Ma perché ciò avvenga sarà necessario aver già voltato pagina, permettendo a questo insieme di fenomeni di storicizzarsi una volta per tutte. Resta il fatto che, attualmente, e nonostante gli evidenti segnali di declino riscontrati da Luigi Manzione in questo bello e denso articolo, la “fiera del famolo strano” (cit.) non sembra destinata a concludersi rapidamente: come la finanza, infatti, questo genere di architettura continua ad aggredire le società più disponibili a cedere alle pressioni del mercato, prosciugandone le risorse territoriali e abbandonadole al proprio destino, non appena il suo abile gioco di specchi è smascherato dall’ovvia impossibilità di far crescere il valore immobiliare ad libitum. Nell’attesa che anche questo capitolo della nostra storia volga al termine, compito dei critici d’architettura è costruire e diffondere discorsi capaci di impulsare la produzione di un’architettura critica (riprendendo il titolo di un bel testo di Michael Hays), ovvero di una pratica del costruire che sappia esprimere le caratteristiche del proprio tempo prendendone, allo stesso tempo, le distanze. E chissà che nell’ottica di questo necessario sforzo collettivo, ci suggerisce qui Manzione, il “progetto di crisi” di Manfredo Tafuri non torni ad assumere un ruolo essenziale.

Davide Tommaso Ferrando

Ogni discorso critico in architettura appare oggi futile, se non sospetto. Eppure il disorientamento diffuso dovrebbe indurre a riflettere, nella sostanziale equivalenza di quanto si produce, sulle difficoltà e le prospettive disciplinari. Qualcosa comincia a muoversi anche grazie alla veicolazione promossa sul web, in particolare nei social networks. È solo un inizio, ma un segnale importante. Anzitutto per cominciare a capire come si sono radicalmente trasformate le condizioni del pensare e del fare architettura. In questo senso mi sembra condivisibile il quadro tracciato pochi mesi fa da Pietro Valle1: l’architettura come pura immagine, “merce di scambio”, “brand globale” ha ormai varcato i confini di ciò che solo venti anni fa era immaginabile. La progressiva evanescenza dell’architettura, intesa come entità connotata da una riconoscibile materialità, è il segno – in quanto sorta di architettura “allo stato gassoso”2 – di una rottura netta rispetto ad una millenaria continuità, già scossa dalla violenza d’urto delle avanguardie storiche del Novecento.

Valle sembra riferirsi alla condizione attuale dell’architettura come ad un processo irreversibile nel suo non essere più “disciplina autonoma” (disciplina, direi, tanto dotata di una propria specificità quanto intrinsecamente eteronoma o relazionale), ma parte del “regime dei segni collettivi condivisi con la comunicazione commerciale”. Questa prospettiva non mi sembra del tutto convincente. Penso che si tratti non dell’architettura tout court, ma di una inflessione determinata che, in fondo, dura da un ventennio e che si avvia forse ad eclissarsi sul terreno del linguaggio, delle forme, delle tecniche, sotto la spinta della crisi globale, dell’irruzione dei social media, di una rinnovata esigenza di rigore (materiale e mentale). Basta pensare, ad esempio, al fallimento di Dubaï World e delle ambizioni infinite della città spettacolare per eccellenza per rendersi conto che un ciclo – quello liberista degli ultimi trent’anni – si è chiuso o sta per chiudersi. Le “città allucinate del neocapitalismo”3 sono catapultate, nelle modalità della loro costruzione e rappresentazione, in una nuova dimensione che potrebbe scuoterle in profondità, rimettendo in questione la sovranità della concorrenza, dell’economia creativa, del consumo come attitudine primaria e interclassista di esistenza.

Credo sia importante insistere su questa contestualizzazione, osservando la situazione attuale attraverso il filtro sia della interpretazione critica sia della messa in prospettiva storica. Anche perché rientra in gioco qui, indirettamente, il tema della periodizzazione: le partizioni temporali, definizioni spesso create dai promotori dell’architettura (a partire da Siegfried Giedion nel primo trentennio del Novecento), hanno finito con l’assumere caratteri assoluti ma, di fatto, si tratta di categorie instabili, divenute quanto mai arbitrarie. Seguendo il dibattito suscitato dall’ultimo libro di Jacques Le Goff sul “medioevo lungo” (dal XII al XVIII secolo)4, in generale sul passaggio da un’epoca all’altra, non si può non pensare alla debolezza intrinseca delle periodizzazioni (nel nostro caso moderno, tardomoderno, postmoderno, supermoderno, etc). Mentre gli storici si interrogano su questo nodo, gli architetti continuano a chiedersi se e come uscire o restare nel moderno…

La subordinazione al mercato globale e l’omologazione generalizzata non disegnano, a mio avviso, un orizzonte immutabile. La banalizzazione e, insieme, l’appropriazione immediata nelle strategie contemporanee di comunicazione e di marketing dei linguaggi delle avanguardie storiche, rimessi in discussione fin dal secondo dopoguerra, è sintomatica dello stato di estrema incertezza nelle pratiche e nei discorsi architettonici. Tuttavia, anche sotto questo aspetto, è riduttivo ritenere definitiva tale condizione se si considerano poi le ricerche (teoriche e progettuali), da più parti emergenti, in contrasto con una deriva puramente iconica e cosmetica dell’architettura. Non è detto che si vada verso un nuovo ascetismo quale unica strategia di resistenza al mercato globale5 ma, di certo, ci si avvicina ad un’attitudine caratterizzata da meno spettacolo e più rigore. L’architettura “ufficiale”, quella delle grandi firme e delle archistar, non solo è diventata del tutto autoreferenziale ma – occorre dirlo con chiarezza – sempre più brutta e insignificante. Giocata ormai sul puro valore della dimensione, della potenza d’immagine, dell’originalità (presto però replicata nel transito delle idee in tempo reale tra i grandi studi internazionali), essa produce oggetti paracadutati nelle città, acrobazie del nuovo sublime del mercato globale.

Questa nuova koiné architettonica ha creduto di poter ridurre tutto a una questione di attrazione e di fluidità di risorse, di benchmarking, di centralità di una classe media più o meno “creativa” (secondo Richard Florida), evitando così di riflettere sul versante del sociale e del politico. Ma non è paradossale che, mentre sul lato della teoria, architetti influenti hanno dedicato grande attenzione ai processi emergenti di urbanizzazione, alle periferie, allo “junkspace”, etc., quasi tutti i loro progetti realizzati si trovano nei centri urbani, di preferenza nelle “città-mondo” e in qualche caso più “illuminato” (e controverso) nei tessuti storici? Intese come landmark e attrattori turistici, secondo una pratica generalizzata di consumo “mordi e fuggi” alimentata da strategie di promozione territoriale, queste architetture non proclamano solo il “fuck the context” ma, nei fatti, un analogo “fuck suburbia”…

La distanza tra teoria e progetto e la tentazione dell’iconismo – pur criticato a parole – sono evidenti. Ciò appare costitutivo dell’architettura come disciplina che non riesce a trovare mediazioni tra discorsi e pratiche. Prendiamo Rem Koolhaas: mentre beatifica Lagos e ci fa conoscere l’urbanizzazione cinese in Great Leap Forward, costruisce la sede di China Central Television a Pechino e trasforma il Fondaco dei Tedeschi a Venezia in un centro commerciale. Abbandonata ogni ambizione “auratica”, l’architettura è diventata uno strumento di marketing, con la conseguente disseminazione di manufatti che parlano unicamente il proprio linguaggio. In questo meccanismo, e in un regime di estrema flessibilità e disponibilità, l’architetto è tenuto ad assicurare una prestazione ottimale al prodotto introdotto sul mercato, oltre che un’invenzione attentamente sorvegliata nella fondamentale triangolazione immagine-seduzione-promozione.6

Se è vero che il progetto non è solo produzione di forme, ma anche lettura e interpretazione della realtà, la teoria e la critica non dovrebbero contribuire a costruire i fondamenti di una rappresentazione del mondo attraverso l’architettura, invece di ratificare semplicemente l’esistente? A partire da un punto di vista critico e di opposizione, il progetto non dovrebbe ripensare la complessità del reale, senza limitarsi a riprodurne i caratteri esteriori, selezionando direzioni e scenari possibili? La figura dell’architetto potrebbe forse affrancarsi da uno statuto di sostanziale marginalità, per farsi interprete critico delle condizioni (e delle contraddizioni) del progetto, della costruzione e del consumo dell’architettura. Ma qui si impone un salto di scala: dall’analisi degli oggetti architettonici alla critica dei contesti globali all’origine della loro produzione; dallo sguardo privo di distanza sul presente all’attenzione selettiva di uno sguardo non omologato. Questo sembra essere uno dei maggiori propositi dell’attuale Biennale di Venezia, dove Koolhaas si richiama ai Fundamentals, rimettendo al centro le categorie della storia e del futuro, in opposizione alla “omogeneizzazione dei linguaggi e all’abbandono delle proprie identità”, nella rivisitazione di una lunga modernità (dal 1914 al 2014) – di nuovo la questione delle periodizzazioni… – in cui diviene essenziale l’ibridazione con le discipline al contorno e la connessione dell’architettura con la politica.

Ora, a parte Venezia, nella società dello spettacolo e nella declinazione mondializzata del capitalismo avanzato è ancora pensabile un’architettura critica, accanto ad una critica dell’architettura? È ancora possibile tentarne una ricostituzione in rapporto al sociale e al politico, come campo di sperimentazione situato tra i due estremi della critica della società (come era stata agitata dalle avanguardie e poi teorizzata dalla scuola di Francoforte) e della estetizzazione diffusa (o della legittimazione estetica della produzione e del mercato)? Una opposizione può ancora esercitarsi facendo interagire il potenziale critico dello sguardo storico con il progetto inteso come “utopia concreta” (nel senso di Ernst Bloch): non ritirandosi in uno spazio separato, ma agendo negli interstizi (brutta parola…) non ancora interamente colonizzati dal mercato e dalla città globale. Una teoria generale dell’architettura lì non avrebbe senso, se non come dottrina o manifesto. Ma, come ci è stato ricordato, il tempo dei manifesti si è ormai concluso.

Come operare concretamente? Dagli architetti ci si aspetta un saldo riferimento alla realtà, ma non si chiede loro di tradurre grandi racconti quali la “società aperta”, “liquida”, “nomadica”, come da un ventennio si cerca invece disperatamente di fare. Né spetta a loro opporsi, con le sole armi del progetto, a “dispositivi” generali come quelli del controllo, della disciplina, dell’egemonia del mercato, etc. Forse è necessario ripartire dal valore sostanziale dell’architettura. Un esempio tra gli altri: la rinascita del social housing. Invece di far rifluire anche lì la retorica dell’immagine, perché gli architetti non si preoccupano, più modestamente, di capire cosa è cambiato nei modi di vivere e di abitare, e di rielaborare queste conoscenze in progetto, in nuove configurazioni spaziali, tecnologiche, formali? Perché si continua a progettare l’alloggio sociale rinnovando l’involucro, ma richiamandosi ancora alle teorie dell’”abitazione razionale” degli anni ’30 del Novecento? Un modo sostanzialmente politico di operare, ossia da architetti, è possibile facendo ricerca e demistificando le credenze più radicate, i concetti imprecisi elevati spesso a feticci senza essere rigorosamente verificati: dallo spazio privato allo spazio pubblico, dallo sprawl alla sostenibilità pervasiva, dalla densità alla mixité, dalla concertazione al marketing territoriale. Occorre, insomma, lavorare meno sulle certezze che sulle zone d’ombra, sulle ignoranze.

Si ripete da più parti che la sfida dell’architettura e della città si gioca nell’approccio alla complessità e all’incertezza. Le grandi illusioni e semplificazioni dell’architettura spettacolare non reggono più l’urto con la realtà. Non sembra più stare in piedi né la prospettiva dell’autonomia disciplinare, nonostante i recenti tentativi di recupero, né il dissolversi eteronomo dell’architettura. L’interdisciplinarità, per non continuare a essere solo uno slogan, dovrà essere probabilmente ripensata per penetrare i tanti “enigmi” che pesano sull’architettura e rendono opaca l’esperienza della città e dell’abitare: le pratiche, i modi di vita, gli usi concreti degli spazi, la creatività dispersa dell’invenzione del quotidiano di cui ci ha parlato Michel de Certeau. Solo il confronto tra i saperi e le discipline può fornire risposte, al di là del narcisismo del progetto dell’era dell’opulenza, forse definitivamente tramontata. Risposte non limitate alla creazione di immagini e di comunicazione ma di usi e di significati.

Per opporsi alla marginalità dell’architettura occorre ripartire dalla constatazione che l’architettura stessa è una parte minoritaria del costruito, così come la città lo è dell’urbanizzato. Una visione politica dell’architettura e della città – o della proliferazione di quella che Thomas Sieverts denomina “città intermedia”– dovrebbe prendere le mosse dall’analisi del presente, senza sottovalutare l’imprevedibilità degli esiti del ciclo liberista: processi sociali di individualizzazione, differenziazione, parcellizzazione; eclissi della nozione tradizionale di società e di comunità locale; migrazioni, ibridazioni, conflitti. Si dovrebbe quindi dislocare lo sguardo verso l’elaborazione critica, e non tenerlo solo sull’invenzione di un progetto: porre domande, costruire problematiche, individuare soluzioni. Nella consapevolezza che, nel tentativo di materializzare il “diritto alla città” e all’architettura, i soggetti, le decisioni, le azioni sono ormai divenuti molteplici e conflittuali, e forse da reinventare alla radice.

Come traguardare il futuro dell’architettura a partire dal contesto italiano? Su quali processi, temi, riferimenti orientare la riflessione? Su zeroundicipiù si è avviata una discussione sul ruolo di Bruno Zevi e sull’influenza del suo modo di fare critica negli ultimi decenni. È interessante ritornare sul “caso Zevi”, ma mi sembra utile farlo in chiave comparativa con l’altra figura maggiore della critica e della storiografia dell’ultimo cinquantennio: Manfredo Tafuri. Non tanto per tentare altri esperimenti di critica “al quadrato”, come quello che sembra proporre Valerio Paolo Mosco nel suo scritto su elasticospa7 – leggere l’architettura, come in un gioco di specchi o di matrioske, attraverso le categorie definite da un altro critico – quanto per ricominciare a ragionare sulle difficoltà a ricostruire in Italia un discorso sull’architettura. Occorrerà ritornarvi in futuro con maggiore attenzione, a partire dalla contrapposizione Zevi-Tafuri, tenendo conto che, dal mio punto di vista, nella società dello spettacolo materializzata su scala globale la posizione demistificatoria di Tafuri conserva forse maggiori chances esplicative-interpretative rispetto all’approccio di Zevi. Soprattutto nel tentativo di dar corpo ad una pratica critica che, senza fare un uso immediatamente operativo del passato, sia capace di delineare traiettorie future a partire dall’analisi delle condizioni attuali.8 Il che non significa riprodurre la contrapposizione politica o, se si vuole, “militare” tra zeviani e tafuriani, che ha avuto conseguenze esiziali sull’architettura italiana, formando schieramenti spesso fittizi in quanto basati su letture riduttive e dogmatiche (peraltro puntualmente sconfessate dagli stessi Zevi e Tafuri).

1 P. Valle, “Curiosità provinciali” [ http://www.zeroundicipiu.it/2014/02/19/curiosita-provinciali/ ].

2 Yves Michaux, L’art à l’état gazeux. Essai sur le triomphe de l’esthétique, Parigi, Stock, 2003.

3 Mike Davis, Daniel Monk (a cura di), Evil Paradises: Dreamworlds of Neoliberalism, New York, The New Press, 2007.

4 J. Le Goff, Faut-il vraiment découper l’histoire en tranches?, Parigi, Seuil, 2014.

5 Pier Vittorio Aureli, Less is enough, Mosca, Strelka, 2013.

6 Luigi Manzione, “Image, séduction, promotion. Pour une critique architecturale au-delà du divertissement”, Le Visiteur, n. 11, 2008, pp. 6-18.

7 P. Mosco, “Not quite architecture” [ http://www.zeroundicipiu.it/2014/01/28/not-quite-architecture/ ]

8 Andrew Leach, “Inoperative Criticism: Tafuri and the Discipline of History”, in Hilde Heynen, Jean-Louis Genard, Tahl Kaminer, Critical Tools, International Colloquium on Architecture and Cities #3, Brussels, La Lettre volée, 2011, p. 39.

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2 risposte a “Not only history, but also criticism”

  1. Remo Gherardi ha detto:

    Gregotti for dummies

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