Sulla menzogna, o di palazzine e opere d’arte

massa critica | davide tommaso ferrando

El Ultimo Grito | Capitalism is boring!/I’m loving it!

Il 5 novembre scorso si è tenuto alla Storefront di New York un forum in occasione della presentazione del libro Architecture and Capitalism: 1845 to the present (a cura di Peggy Deamer, Routledge, 2013), cui hanno partecipato – tra gli altri – Thomas Angotti, Quilian Riano e Michael Sorkin. Durante la discussione, come scrive Ross Wolfe nel suo resoconto della serata, qualcuno dal pubblico ha chiesto se non fosse possibile “lavorare all’interno del capitalismo per rendere il mondo meno brutto”, se ci potesse insomma essere un “capitalismo più bello”. “Guarda che c’è già”, ha risposto Thomas Wensing: “si chiama OMA”.

OMA | De Rotterdam

Il più bell’articolo che ho letto sul recente completamento del De Rotterdam di OMA è questo post pubblicato da Oliver Wainwright sul Guardian. Invece di limitarsi, come la maggior parte dei giornalisti hanno fatto finora, a sottolineare le notevoli dimensioni del complesso e il notevole tempo impiegato per costruirlo, Wainwright ha scavato un po’ più a fondo, criticandone aspetti più e meno ovvi, ma soprattutto facendo dire a Koolhaas una frase importante. Alla domanda se il progetto fosse qualcosa di più di un mirabolante gioco di facciate da osservare da lontano, l’architetto olandese ha infatti risposto: “Non c’è nient’altro da vedere. Per il resto si tratta di un cheap office building.

Facciamo finta di non cogliere le auto-citazioni al Manhattanismo e alla bigness (per chi fosse interessato, en passant, sul numero 71 di OASE c’è un bel saggio di Lara Schrijver sulla plausibile origine ungersiana di questi concetti) e concentriamoci esclusivamente sull’edificio in sé. In effetti, provando a osservare separatamente i volumi accatastati del De Rotterdam, ci si rende immediatamente conto – piante e sezioni lo confermano – che di architettura interessante, in quelle scatole di vetro, ce n’è ben poca. Si tratta, in sostanza (e hall di ingresso a parte), di edilizia commerciale ripetuta, ruotata, slittata e sovrapposta: uno stratagemma tutt’altro che banale, in realtà, perché agisce su un repertorio generico di elementi derivati dal mercato immobiliare per dar loro una forma inattesa e un’immagine iconica. Nel De Rotterdam, in parole povere, l’insieme è molto di più della somma delle parti, soprattutto perché le parti lasciano molto a desiderare.

OMA | De Rotterdam

Questa condizione di ambiguità, di passaggio costante dal dominio dell’architettura a quello della speculazione immobiliare, mi pare sia uno dei tratti più interessanti e delicati dell’opera recente di OMA (basti pensare al quasi completato Interlace), perché solleva interrogativi non banali, sia sul tipo di estetica che emerge da questo tipo di progetti, sia sul ruolo dell’architettura in un settore produttivo ampiamente dominato da logiche di mercato, sia sulla possibilità di agire criticamente su quelle stesse logiche attraverso la progettazione.

Se oggi dovessi esprimere un giudizio su questo edificio, direi che – pur trovandolo stimolante nella forma, nei riferimenti e nel rapporto con il contesto – il progetto pecca di una certa semplicità (un paio di “mosse” compositive e poi si dà in mano agli ingegneri): un male comune a gran parte dei lavori che escono dalle indaffarate multinazionali dell’architettura.  Quello che però mi preme qui sottolineare, più che il valore o meno dell’edificio, è il fatto che Koolhaas dichiari apertamente che il De Rotterdam, percezione urbana a parte, è un cheap office building, e che lo dichiari non solo rispondendo educatamente alla domanda del giornalista che lo ha messo all’angolo, ma soprattutto attraverso il progetto stesso, dato che le anonime palazzine vetrate che compongono il complesso non sono mascherate o addolcite da alcun ornamento, se non dalla loro stessa disposizione.

De Rotterdam of the Captive Globe

Chiamare le cose con il loro nome è una bella abitudine, soprattutto in un periodo in cui ogni termine – e alcuni più di altri – è preda potenziale di un sistema comunicativo principalmente volto a fare numeri. “Sostenibile”, “smart”, “verde”, “il più alto”, “il più grande”, “vivere nel parco”, “firmato”, etc… parole e frasi fatte che non hanno alcun valore in termini architettonici, ma che i mezzi di comunicazione insistono a utilizzare per il loro potere di far aumentare visite, clicks e likes, e che le imprese immobiliari continuano ad assumere a parametro qualitativo dell’architettura, in virtù della loro capacità di attrarre clienti.

Dante O. Benini | Living Art

L’ultima scemenza, nell’ambito degli slogan architettonici, mi è capitata di leggerla ieri, in un articolo scritto da Paola Pierotti e pubblicato su Edilizia e Territorio, nel quale si fa riferimento all’opera d’arte (abitabile) più grande del mondo, ovvero a un complesso di cinque grattacieli progettati a Mosca da Dante O. Benini e attualmente in costruzione, per il quale l’architetto milanese ha coinvolto l’artista Mario Arlati, chiedendogli di “verniciare i suoi edifici fino a un’altezza di 160 metri”. Questo stratagemma ha permesso all’intera operazione di candidarsi al Guinness dei primati come, appunto, opera d’arte abitabile più grande del mondo, garantendo così una maggior visibilità e appetibilità all’intera operazione immobiliare (chi non vorrebbe vivere dentro un’opera d’arte?).

Se non fosse che un grattacielo, per quanta buona volontà possa metterci il buon Arlati, non è e non sarà mai un’opera d’arte. Se non fosse che queste pompose dichiarazioni non fanno altro che sminuire l’idea stessa di “arte” per poi relegarla nel grande cassetto delle maschere del capitalismo. Se non fosse che i grattacieli di Benini non appaiono affatto più interessanti delle palazzine per uffici che compongono l’edificio-transformer De Rotterdam.

Dante O. Benini | Living Art

Gli slogan pubblicitari delle imprese immobilari ci stanno abituando a pensare che l’architettura, per meritare la nostra attenzione, debba assomigliare a qualsiasi cosa tranne che a un edificio (un’opera d’arte, una nuvola, una montagna, una casa sugli alberi, un bosco verticale, etc.). In questo processo narrativo, che è evidentemente strutturale al mercato architettonico, giornalisti e architetti sono altrettanto responsabili di quanto si dice e si scrive di un progetto, ma è soprattutto ai critici che spetta, in ultima istanza, il compito di svelarne l’intima natura: sia per rendere l’architettura più ampiamente comprensibile, come ha sottolineato Giovanni La Varra in un bel post appena pubblicato su GIZMO, sia per metterne a nudo la sovrastruttura ideologica, come scriveva Tafuri tempo fa.

L’apparente onestà di Koolhaas non è certo una ricetta contro l’inarrestabile avanzare della speculazione immobiliare, ma offre uno strumento per leggere con più chiarezza i processi economici che stanno dietro all’elaborazione del progetto e, di conseguenza, metterli più propriamente in relazione con quelli prettamente architettonici. La calibrata menzogna di Benini, invece, non fa bene al discorso architettonico perché ne confonde le idee, trasferendo la comprensione del progetto su un piano, quello dello spettacolo della merce, che non ha nulla a che vedere con la realtà costruita.

Davide Tommaso Ferrando

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2 risposte a “Sulla menzogna, o di palazzine e opere d’arte”

  1. dario canciani ha detto:

    Dopo aver assistito alla lezione milanese di Koolhaas mi sono interessato al suo progetto DeRotterdam e preparando un mio post nel mio blog DasAndere (www.dariocanciani.blogspot.it) mi sono imbattuto nel vostro blog ed in particolare nel post
    “Sulla menzogna, o di palazzine e opere d’arte” di Davide Tommaso Ferrando, che ho trovato molto interessante (specie nel confronto con l’opera russa di Benini) e così mi sono permesso citato ampliamente nel mio post. Sperando che la cosa non dispiaccia i curatori di “zeroundicipiù” – ai quali vanno i miei complimenti- e a Ferrando, vi segnalo il post in oggetto.

    http://dariocanciani.blogspot.it/2013/12/oma-derotterdam.html

    grazie e buon lavoro
    dario canciani

  2. Gabriele Pitacco ha detto:

    Riformismo o rivoluzione, il tema di riferimento è questo,
    o in altri termini il passaggio, mai digerito in architettura, da committente a cliente. Onesta intellettuale olandese o fuga trontista?
    Parafrasando Tafuri si potrebbe riconoscere al lavoro di Ole Schereen (autore molto più di Rem Koolhaas dell’Interlace) la capacità di mettere a nudo i rapporti economici sottesi al progetto architettonico e le dinamiche finanziarie/immobiliari di Singapore. Ci basta? Temo di no, ma allo stato attuale non vedo alternative migliori. In ogni caso complimenti per l’articolo.

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