Come affrontare il tema della fabbrica, quella piccola, diffusa sul territorio, spesso, in particolare in Italia, anonima e senza identità apparente? Come uscire dalle rigide maglie di un piano urbanistico che chiede la massima uniformità ai nuovi insediamenti e al tempo stesso cancella le linee guida, storiche di un territorio votato in passato all’agricoltura? Ecco allora che l’edificio diviene lui paesaggio, si fa territorio astratto di nuove morfologie.
La scatola edilizia si muove, dapprima impercettibilmente con sinuose linee superiori che paiono richiamare l’andamento del terreno, poi con fratture e intrusioni, sollevamenti e cadute.
Parallelepipedi neri che si protendono all’esterno e giardini interni attraverso i quali macchine sbuffanti strizzano l’occhio a esseri umani che nuotano in stanze di vetro da cui si può di nuovo vedere il cielo. Il tutto bianco e nero, luce ed ombra, natura ed artificio in una sorta di suprematismo contemporaneo in cui non è l’astrattezza a sostituirsi alla realtà quanto piuttosto un certo scarto della percezione di entrambi.
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