La storia di Slow Horse comincia nel novembre del 2010, con la vittoria da parte del gruppo di progettisti capeggiato da ELASTICOSPA+3 di un concorso a inviti per la realizzazione di un nuovo hotel a Piancavallo, stazione sciistica sorta intorno alla fine degli anni Sessanta e segnata da un tessuto edilizio prevalentemente speculativo. La sfida lanciata dal committente – progettare e costruire, in meno di ventiquattro mesi e con un budget limitato, una struttura in grado di fornire una nuova aura all’anonima località montana – era tutt’altro che agevole. Ma le sfide, si sa, sono l’ingrediente principale delle buone architetture.
Il sito scelto per l’intervento è un piccolo lotto angolare, situato lungo il margine nord della località turistica friulana, sul quale insisteva una foresteria di due piani fuori terra e nessun interesse architettonico, di cui il progetto doveva prevedere la ristrutturazione e l’ampliamento.
Libero da interferenze fisiche rilevanti (ad esclusione di un complesso sportivo di medie dimensioni, collegato al lato sud-ovest della foresteria), il luogo è caratterizzato da una vista panoramica continua sulle vicine Alpi Carniche, interrotta soltanto da una serie di edifici residenziali e alberghieri, che costituiscono il disordinato affaccio sud del lotto.
Il progetto instaura un dialogo forzuto, più che forzato, con la debole preesistenza. Prima parzialmente demolita, poi inglobata e infine sovrastata dal nuovo organismo, l’ex foresteria si converte nel piano terra del nuovo edificio: un basamento matericamente coerente ma geometricamente autonomo rispetto al resto del progetto, all’interno del quale sono ospitate la hall di ingresso e la caffetteria della struttura alberghiera.
Al di sopra di esso, a partire da una quota di cinque metri, si imposta il principale nucleo architettonico dell’intervento: una scultorea massa lignea, sollevata da terra e sorretta da sette massicci tripodi in calcestruzzo armato – sette “gambe” di un inquieto mostro equiniforme, il cui scheletro recupera ed esaspera la soluzione strutturale adottata da Carlo Mollino nel noto progetto della Casa Capriata – esplicito riferimento di questo intervento.
All’interno, trentasette stanze sono distribuite su tre piani, lungo altrettanti ballatoi lignei a “V” che circoscrivono uno spazio centrale a tripla altezza, dal quale si può godere, attraverso una grande vetrata orientata a ovest, di una straordinaria vista sul paesaggio montano circostante.
Durante la stagione invernale, la scena alpina appena descritta si arricchisce dello spontaneo formarsi di una grande stalattite di ghiaccio, ottenuta per mezzo del gioco sapiente delle falde e dei compluvi che compongono la movimentata copertura dell’hotel.
Ed è proprio alla cangiante forma del tetto, con i suoi avvallamenti, i suoi picchi e i suoi squarci, che è affidato il delicato compito di far dialogare progetto e contesto: non certo in qualità di metafora naturale (del tutto pretestuoso il cercare una riproposizione del profilo delle montagne nelle frastagliate linee della copertura dell’hotel), bensì in virtù della sua capacità di “reagire creativamente” alle condizioni climatiche del luogo, attraverso la predisposizione di un sistema di piani inclinati appositamente pensati per interagire con i suoi elementi più caratteristici – l’acqua, il ghiaccio e la neve.
Tale condizione “reattiva”, che definisce la particolare forma della copertura, si estende a tutto l’hotel: dall’orientamento delle maniche e delle stanze, al posizionamento delle finestre e degli abbaini, alla finitura e bucatura delle facciate. Si riconosce, così, una facciata più “urbana” (quella verso sud), rivestita e controventata in legno, che instaura un dialogo tipologico con gli edifici residenziali frontenstanti; una facciata più tipicamente “alpina” (quella verso nord-est), puntellata di acuti abbaini e rivestita d’ardesia, che prolunga la superficie del tetto senza soluzione di continuità, evocando note immagini d’architettura di montagna; infine, una facciata “ibrida” (quella verso nord-ovest), caratterizzata da grandi aperture rivolte verso il paesaggio montano, che declina i linguaggi e gli elementi tipici dell’architettura moderna in un’inattesa chiave vernacolare.
Nonostante Slow Horse sia il più grande tra i progetti degli ELASTICOSPA+3, il salto di scala non sembra aver avuto rilevanti conseguenze sulla nota cura della scala “micro” che caratterizza l’opera del gruppo friulano-piemontese. I tanti accorgimenti che l’edificio svela mano a mano che il visitatore lo percorre – il cambio irregolare di pavimentazione cotto-cemento; il graduale passaggio dall’opacità del legno alla trasparenza del vetro per mezzo di un diradamento del rivestimento di facciata; il grande mucchio di massi (sproporzionato gocciolatoio o installazione di land art?) che occupa lo spazio concavo definito dall’incontro delle due maniche dell’hotel; il lampadario cilindrico nella hall al primo piano su cui è impressa la famosa foto di Mollino con gli occhiali d’aviatore…
… le tende di catene degli armadi delle stanze, riportanti le immagini-fantasmi di sciatori e scalatori di altri tempi; le sagome di animali intagliate ad hoc in sedie e sgabelli – tutti questi accorgimenti dimostrano la non comune capacità degli ELASTICOSPA+3 di non perdere mai di vista la dimensione umana del progetto, che in questo come in molti dei loro lavori precedenti, si costituisce nella predisposizione spaziale di una serie di ineffabili ambiguità e poetici contrasti, tutti da scoprire.
Davide Tommaso Ferrando
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