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Il parco dell’Arrivore di Torino è un microcosmo agro-urbano dal quale la percezione della città risulta atipica, un luogo dove il rapporto città-campagna sembra essersi completamente rovesciato. Il limite di Corso Botticelli fa da barriera al parco e nasconde l’accesso alla strada dell’Arrivore; l’improvviso abbassamento di quota rispetto al limite stradale definisce un cambio di prospettiva nel passare dalla città ad un’oasi rigogliosa di orti. In lontananza, l’aspetto selvaggio della zona attorno alla misteriosa torre anima il paesaggio quanto lo farebbe il rudere di una civiltà decaduta. Un’area che appare come un’oasi lontana e distaccata dalla città caotica e frenetica, un luogo dove si riscoprono antiche culture e tradizioni legate all’uso del suolo e al suo sfruttamento.
Cerchiamo di studiare quest’area insieme alle persone che l’hanno abitata a alle diverse tradizioni legate all’uso del suolo e al suo sfruttamento: oggi troviamo orti urbani utilizzati da anziani residenti nei quartieri limitrofi dove ieri sorgeva un campo nomandi. Orti urbani e rom, due realtà apparentemente distanti, ma che ad uno sguardo più attento possono non risultare poi così estranee. Notiamo che gli ortolani nel loro territorio tendono ad assumere logiche di insediamento simili a quelle dei rom: dal punto di vista della libertà di aggregare e adattare gli spazi, del rapporto tra spazio collettivo e privato, della modalità di autocostruzione. La baraccopoli sarà per noi un riferimento utopico.
Il passato ha in qualche modo contaminato il presente: i lotti agricoli ortogonalmente definiti si sono sostituiti a quella modalità di insediamento spontanea ed amorfa tipica della baraccopoli, ma nonostante la rigida griglia disegnata per assegnare esattamente 100mq ad ogni ortolano, questo luogo si è evoluto in maniera incontrollabile e non predeterminabile. Dopo una prima fase in cui è stata tracciata la struttura, la forma dell’insediamento comincia ad evolvere: sulla base del compromesso, a seconda dei materiali reperibili, in base alle azioni ed esigenze individuali. Spazi intenzionali e non intenzionali si sono così intrecciati creando una varietà che ricorda quella urbana oltreché quella della civiltà precedente.
Per l’elaborazione del nostro progetto di rifugio urbano, individuiamo nell’autocostruzione e nella molteplicità compositiva degli spazi le nostre strategie progettuali, in modo da poter arrivare a definire quella complessità peculiare dello spazio domestico e del suo inserimento nel contesto urbano.
Cominciamo a riflettere sul materiale assegnatoci (pannelli prefabbricati in fibra di legno Mozzone e pannelli fonoassorbenti Fantoni), sulle dimensioni standard di produzione, sulla semplicità del montaggio, sulla versatilità degli elementi. Ci confrontiamo con i limiti di questi materiali, con le loro potenzialità ed elaboriamo il progetto a partire da un elemento base molto semplice: il cubo. Scelta motivata dalla volontà di esplorare le possibilità costruttive del materiale senza forzarne la natura; di creare complessità a partire dalla semplicità; per una questione di economicità ed ecologia. Sulla base delle dimensioni standard degli elementi prefabbricati definiamo un modulo base di 3.75×3 .75 m, dimensioni adatte per un rifugio urbano minimo.
Per superare la rigidità del cubo cerchiamo di capire in che modo esso si possa relazionare con l’ambiente esterno e con gli altri moduli. Partendo dal principio che una faccia del cubo possa di volta in volta aprirsi, immaginiamo di realizzare un elemento di collegamento che possa assumere funzioni diverse: partizione, struttura, copertura, soletta. Un pavimento può diventare anche muro o un tetto e questo basta a giustificare una forma che deve potersi adattare a molti usi e forse ri-usi. Decidiamo di rinunciare o almeno ritardare la riflessione sulla specificità di una funzione per poterne soddisfare molte.
Sulla base del modulo base, definiamo una serie accessori necessari e optional che possano permettere una personalizzazione controllata degli edifici: moduli finestra, verande, coperture o pavimentazioni esterne accessibili, moduli con funzioni di servizio o impiantistiche, scale.
I singoli moduli possono allora diventare componibili e a seconda delle relazioni che si possono creare tra loro, oltre che sulla base del numero di moduli che si decide di aggregare, nascono differenti tipologie di spazi abitabili, composte da una o più unità, dotate di spazi aperti privati o collettivi.
L’idea è quella di creare tipi abitativi differenti che possano crescere o decrescere nel tempo sulla base di aggiunte o sottrazioni di moduli.
Tale flessibilità ben si addice anche ad un discorso sociale legato al tema dell’abitazione, oggi in continua trasformazione, riflesso di una società in cui il nucleo famigliare non si configura più come quello tradizionale ma subisce notevoli cambiamenti, legati a temi come quello della separazione o della famiglia allargata.
Ad una scala più ampia notiamo come questo sistema possa svilupparsi sul territorio a partire da una matrice di base molto regolare, quella degli orti stessi: la griglia degli orti potrebbe essere estesa sul suolo limitrofo e su di essa i moduli base si disporrebbero in nuclei, come delle specie di clusters, alternando aree densamente costruite ad altre libere. Si trasferisce così ad un’altra scala il principio secondo cui gli spazi vuoti diventano spazi del possibile, spazi interpretabili, personalizzabili, colonizzabili.
Il progetto, nel suo continuo divenire, vuole animare un processo rivelatore di qualcosa che si trova oltre la realtà della materia. Il legame con l’utopia è mantenuto ad una distanza controllata, al fine di poter generare e gestire insieme uno scenario dinamico e complesso, la cui autonomia possa preservare questo luogo dalla contaminazione della città.
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