massa critica | federico calabrese
Lobby di ingresso © Adrià Goula
La Sala Beckett non è solo un teatro, ma anche (soprattutto) un luogo di sperimentazione, ricerca, creazione e incontro. Le sue porte non si aprono pochi minuti prima di uno spettacolo, per poi chiudersi ed essere riaperte alla successiva rappresentazione. La Sala Beckett è uno spazio che funziona tutto il giorno, nel quale, come afferma il direttore Toni Casares, “si cuociono” delle cose. La metafora gastronomica è importante, perché permette di capire il funzionamento di un edificio nel quale c’è sempre qualcosa “nel forno”, oltre agli spettacoli che vengono messi in scena. La Sala Beckett forma creatori, in questo caso drammaturghi, e queste due anime – esibizione e formazione – sono le due facce di una stessa medaglia. Spettacoli e corsi si alimentano reciprocamente: i primi nascono dai secondi, e viceversa.
Nella Sala Beckett, attori e pubblico assumono un ruolo paritetico. Gli spettatori non sono il tassello finale di una catena produttiva, ma parte attiva di un processo creativo, assimilabile a un dialogo di tipo artigianale. Spettatori e attori condividono lo stesso rito, in uno spazio le cui dimensioni accoglienti alimentano questa cerimonia di scambio, che si svolge durante le esibizioni così come nei corsi, nei workshop e nelle altre attività. Come in un’opera drammaturgica, la Sala Beckett ha una vera e propria Dramatis Personae – un elenco di personaggi – composta, tra gli altri, dagli spettatori abituali. Prima dell’inizio di ogni stagione teatrale, il consiglio direttivo della Sala si riunisce con i membri della Dramatis Personae, per discutere collettivamente della programmazione annuale. Flores y Prats, gli architetti incaricati della progettazione della Sala, sono stati chiamati a interpretare tutto questo.
Sala Obrador © Adrià Goula
La Sala Beckett sorge all’interno della rovina di un edificio che dal 1912 ospitava la Cooperativa Paz y Justicia, ma che da tempo si trovava in stato di abbandono. Entrare in una rovina di simili dimensioni è come entrare in una macchina del tempo, capace di proiettare il visitatore al momento in cui gli spazi della Cooperativa erano ancora abitati: spazi di incontro, di teatro e di festa.
L’edificio conservava una buona parte dei pavimenti originali, e le sale erano ancora decorate da stucchi, cornici, rosoni e vetri colorati, che ne segnalavano la funzione e il carattere festivo. Si tratta di spazi generosi, che ospitavano un gran numero di persone, in maggioranza lavoratrici e lavoratori che vivevano nel quartiere operaio del Poble Nou. Questo quartiere, chiamato a suo tempo “la Manchester catalana”, era il motore industriale della regione, essendo in gran parte occupato da grandi fabbriche.
La rovina è punto di partenza, e allo stesso tempo, vincolo e stimolo creativo del progetto.
La rovina è un modello architettonico: un sorta di episteme. È forma pura, base e fondamento dell’architettura, così come negli edifici di John Soane e nei disegni di Giovanni Battista Piranesi. La rovina è una permanenza che trasmette la memoria fabbrile dell’uomo.
Sala Beckett © Adrià Goula
Progettare all’interno di una rovina non significa riportarla al suo stato iniziale, ma proiettarla in avanti fino a renderla partecipe di un nuovo presente: un presente caratterizzato da una condizione non-finita di stratificazione delle epoche precedenti, che il progetto rinnova di volta in volta.
E se la Sala Beckett è il teatro della parola, è necessario ascoltare quello che hanno da dire i muri della rovina che la ospita, dalle cui qualità spaziali e decorative non si può prescindere. Il materiale costruttivo (il mattone) e le decorazioni sono dunque elementi fondamentali per capire la preesistenza e le sue relazioni con la città industriale nella quale la rovina è nata. Le tracce stratificatesi nel tempo conservano la memoria della vita industriale di un intero quartiere: sono un patrimonio quotidiano in grado di raccontare la vita di quegli anni, il passato della città.
Caffetteria © Adrià Goula
Ricardo Flores (Beunos Aires, 1965) ed Eva Prats (Barcellona, 1965) fondano il loro studio nel 1998 a Barcellona, città nella quale si conoscono mentre lavorano da Enric Miralles. Conservando un modo di progettare apparentemente inconsueto, il loro studio è pieno di plastici di legno – cui dedicano un’attenzione maniacale – e di disegni eseguiti esclusivamente a mano: Flores e Prats, infatti, usano il computer solo nella fase finale del processo progettuale. Il loro lavoro è dunque scandito da una lenta dedizione artigianale, il cui fulcro risiede nell’affrontare la costruzione come un processo riflessivo e materiale allo stesso tempo.
Schizzo per il progetto di Piazza Pio XII © Flores i Prats
Per Flores e Prats, il disegno è prima di tutto uno strumento di osservazione, e solo in un secondo momento di progetto. È uno strumento per documentare, catalogare, interpretare e pensare. Questo tipo di approccio si fa ancora più evidente quando il tema di progetto è il riuso di una struttura esistente, dove osservare – come uno spettatore – qualcosa di già pensato e fatto da altri diventa di fondamentale importanza. Gli architetti iniziano i loro progetti a partire da due tipi di schizzi, eseguiti in fasi diverse: il primo più preciso, eseguito con matite a mina 4H; il secondo con mine morbide come 2H o H, nel quale compaiono le loro tipiche linee curve, che in questa seconda fase ragionano sul movimento delle persone negli spazi definiti dai loro progetti. Sovrappongono i fogli in maniera precisa e, per non perderne le tracce, li datano. I disegni si ripetono e si correggono sovrapponendo un foglio sopra l’altro. È un processo che ha a che fare con la memoria e la stratificazione successiva di tracce: le più forti permangono, mentre le più deboli incominciano a sparire.
Il disegno, per Flores e Prats, è dunque un ridisegno: a volte ossessivo, si accumula in strati successivi, e consente di appropriarsi della storia dell’edificio, di immedesimarcisi, per poter lavorare dal suo interno. Attraverso un simile procedimento, diventa possibile osservare il manufatto architettonico da punti di vista diversi, tra loro sovrapposti e ricondotti a un’unica rappresentazione.
Josep Maria Jujol, Casa Bofarull (1914)
Gli architetti accolgono la stratificazione temporale dell’edificio della Cooperativa Paz y Justicia come elemento fondamentale per il progetto della Sala Beckett. Se la rovina descrive il passaggio del tempo attraverso i segni lasciati sulla sua materia, il progetto ne unifica le diverse fasi storiche in una spazialità più evanescente, meno frammentaria. Nessuna storia dell’edificio prevale sulle altre: tutte sono trattate allo stesso modo, tutto è riportato al tempo presente.
Si tratta di un metodo, come spiegano gli stessi architetti, lontano da quello di Carlo Scarpa, che separava ed evidenziava nettamente i diversi momenti storici delle preesistenze. Il lavoro di Flores e Prats, in questo senso, è più vicino al quello di Josep Maria Jujol: grande architetto modernista catalano, che deformava e trasformava gli edifici su cui interveniva a partire dalla materia esistente, come nel caso della Casa Bofarull.
Lobby al primo piano © Adrià Goula
Risultato di un concorso pubblico, il progetto della Nuova Sala Beckett nasce dall’esigenza di raddoppiare gli spazi del piccolo teatro del quartiere di Gracia, ormai giunto al limite della sua capacità, la cui sede si decide dunque di dislocare all’interno di un edificio più capiente. Oltre a sale per le rappresentazioni teatrali, il programma prevedeva una scuola di drammaturgia di autori locali, chiamata El Obrador.
La prima operazione svolta da Flores e Prats è un’accurata catalogazione degli elementi della rovina: apparati decorativi, pavimenti, infissi, porte, etc., vengono documentati per poi essere riposizionati – non sempre nella loro posizione originaria, e a volte in maniera astratta e apparentemente aleatoria – in un’azione di recupero e riciclo di grande raffinatezza.
Facciata © Adrià Goula
La facciata, che presenta un ritmo serrato di aperture e una cornice di coronamento continua, è praticamente l’unico elemento della preesistenza rimasto inalterato. L’immagine esterna dell’edificio funge dunque da elemento di continuità rispetto alla memoria collettiva del quartiere.
Il piano terra ospita la parte più pubblica del progetto. In particolare, vi si trovano un bar-ristorante, che stabilisce un’importante relazione visiva con lo spazio esterno, il foyer, il cui spazio a tutta altezza è inondato dalla luce zenitale di un grande lucernario, e la sala principale, alla quale si accede in modi diversi a seconda della tipologia di palco montato al suo interno. Attori e pubblico, nella sala principale (sala Beckett), si trovano allo stesso livello, e la loro disposizione cambia con lo spostarsi delle gradinate mobili, che permettono di ottenere diversi tipi di configurazione spaziale. Si trovano infine, sempre al piano terra, i camerini, gli spogliatoi e l’amministrazione.
Piano terra © Flores i Prats
Il primo piano ospita le sale prova, la Sala Obrador e una ex sala da ballo che può essere usata per spettacoli minori o laboratori. La Sala Obrador si trova all’interno della antica sala del teatro della Cooperativa, di cui ne ricicla le antiche capriate a supporto delle passerelle tecniche.
Primo piano © Flores i Prats
Al secondo piano si trovano altre sale prove e spazi di servizio.
Secondo piano © Flores i Prats
Il progetto di Flores e Prats per la Nuova Sala Beckett stimola una riflessione sul concetto di patrimonio e su come questo possa essere rivitalizzato attraverso nuovi usi. Buona parte del budget è stato usato per adattare un edificio degli anni venti, abbandonato da decenni, alle normative vigenti, particolarmente rigorose nel caso di edifici adibiti a ospitare spettacoli. Mettere a norma un oggetto architettonico fragile con l’intenzione di salvarne le tracce del tempo impresse sui muri, sui tetti e sui pavimenti consumati, è sicuramente un’operazione delicata. Usare il passato come futuro possibile offre sì un certo margine di manovra, ma le storie raccontate dai muri della Cooperativa Paz y Justicia devono poter dialogare con quelle che si svolgeranno nella Nuova Sala Beckett. Passato, presente e futuro devono poter convivere.
Lobby al primo piano © Adrià Goula
Flores e Prats non si limitano a conservare i muri rotti e gli intonaci scrostati: interpretano lo stato di fragilità dell’edificio, i cui solai sfondati lasciano entrare, oltre ai piccioni, la luce del mediterraneo. Il progetto si basa dunque sull’idea che la preesistenza possa passare per una metamorfosi geometrica, spaziale, temporale e materiale, capace di esprimere il carattere non-finito di un edificio in continua evoluzione. L’intervento dei due architetti, da questo punto di vista, é solo l’ennesimo tassello della sua storia, che va a sommarsi agli strati precedentemente accumulati di questo affascinante palinsesto architettonico.
Vano scale © Adrià Goula
Federico Calabrese (1972) è architetto (1998) e Professore di Composizione Architettonica presso la Facoltà di Architettura e Urbanistica della Università Federale da Bahia, FAU-UFBA. Progetta e realizza nel 2007 la Biblioteca Comunale San Giorgio di Pistoia, e nel 2009 il progetto del Padiglione del Montjuic a Barcellona è Finalista Menzione d’Onore alla Medaglia d’Oro dell’Architettura Italiana. Suoi progetti sono stati esposti al MAXXI, al padiglione Italiano della Expo di Shangai e alla Triennale di Milano e pubblicati in riviste internazionali, tra le quali A10, Paysage, Metalocus, l’Arca, Quaderns. Suoi testi sono stati pubblicati in riviste in Italia e all’estero quali, Plot, Ananke, Compasses, Dromos.
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Bravi e coraggiosi pensatori dell’assurdo