massa critica | federico calabrese
Federico Calabrese analizza il recente progetto di recupero del Forte Pozzacchio (Rovereto) a opera di Francesco Collotti e Giacomo Pirazzoli, mettendo in luce le strategie di recupero della memoria del manufatto, reinterpretato criticamente dai due architetti nel suo stretto rapporto con il paesaggio.
Foto: Federico Calabrese
Il confine attuale tra Austria e Italia è punteggiato da molte testimonianze materiali di un complesso sistema di difesa militare che include sentieri, trincee, postazioni e forti. Un vero e proprio paesaggio fortificato, che fu realizzato tra la metà del XIX secolo e gli anni che precedono la Prima Guerra Mondiale per la protezione del territorio austro-ungarico contro possibili attacchi dal Regno di Italia, cui l’area fu annessa dopo la fine del conflitto.
Tra i vari forti realizzati ne esiste uno che presenta della caratteristiche peculiari: il Forte Pozzacchio-Valmoria Werk. Situato nel comune di Trambileno, nelle vicinanze della città di Rovereto, in provincia di Trento, la sua costruzione cominciò nel 1913, ma non venne mai portata a termine. Raggiungibile per mezzo di una strada di accesso realizzata nel 1912, il forte fu comunque teatro di diverse battaglie durante la Prima Guerra Mondiale.
Mappa di guerra della zona della Vallarsa al confine tra Austria e Italia.
Fonte: Kriegsarchiv di Vienna
Foto storica dell’abitato di Valmorbia con sullo sfondo il Forte.
Fonte: Museo della Guerra Rovereto
Strada di accesso al forte scavata nella roccia.
Foto: Federico Calabrese
Scavato nel ventre della montagna e discretamente nascosto nel paesaggio, il Forte Pozzacchio si differenzia dagli altri forti della zona, eretti in maniera convenzionale con strutture fuori terra in pietre e cemento, rappresentando lo stadio più evoluto raggiunto dall’ingegneria militare austro-ungarica in quel periodo: un’opera quasi interamente in caverna, con solo alcuni elementi in calcestruzzo.
Non si tratta dunque di un edificio, ma di un vuoto: una costruzione in negativo il cui principale materiale è la stessa roccia in cui è scavata. Le poche opere in cemento armato, come la foderatura delle caverne che dovevano ospitare le casette per i dormitori, o i supporti delle cupole corazzate in acciaio, inoltre, non furono mai completate. Sono due, quindi, le principali caratteristiche di questo brano di guerra: il suo carattere ipogeo e la sua incompiutezza.
Danneggiato dai bombardamenti, nel secondo dopoguerra il Forte viene parzialmente spogliato delle sue parti metalliche, conoscendo così una fase declino durata fino al 1997, anno in cui inizia un lento lavoro di approssimazione (e poi intervento) da parte degli architetti Francesco Collotti e Giacomo Pirazzoli: un percorso di attenta lettura, comprensione e interpretazione del testo storico, attraverso una minuziosa ricerca sulle fonti fisiche e scritte (i disegni), con una intensa attività di ricerca presso gli archivi del Kriegsarchiv di Vienna.
Pianta del genio Militare austriaco del Forte di Pozzacchio con evidenziati gli angoli di tiro delle varie postazioni.
Fonte: Kriegsarchiv di Vienna
Sezioni del forte con evidenziati i sistemi di risalita e comunicazione verticale tra gli ambienti interni e il sistema degli obici alla sommità della collina.
Fonte: Kriegsarchiv di Vienna
Il progetto ha così modo di imbastirsi a partire da un atto conoscitivo approfondito, essenziale e coerente con la fase creativa. A partire dal dato storico (il pre-testo) ha inizio un percorso che mette insieme la lettura e la comprensione della preesistenza, che conduce a produrre altro testo. A questi due livelli di approssimazione al dato storico si aggiunge poi un terzo livello, quello ermeneutico, che invece di dis-velare il proprio oggetto, lo rivela, creando nuovi enigmi (Torsello, 1997).
La preesistenza su cui intervengono Collotti e Pirazzoli, il suo senso profondo, rimangono intatti e disponibili a nuove interpretazioni: si dimostra, in questo modo, che la conservazione e il progetto del nuovo possono essere accolti e convivere in uno spazio inedito di cui sono entrambi parte costitutiva essenziale. Similmente a quanto sottolineato da Amedeo Bellini (Bellini, 1997), la conservazione si configura dunque come una continua ricerca di limiti e regole della trasformazione, che prende spunto dalla unicità e irripetibilità dell’architettura come testimonianza della cultura materiale e documentaria ma anche di quella della memoria immateriale.
Disegno assonometrico dell’intervento.
Fonte: Archivio Giacomo Pirazzoli
Il progetto segna una discontinuità rispetto ad altri interventi similari, offrendo una idea di riqualificazione, riuso e musealizzazione diffusa e site specific che non coincide con le tipologie classiche del museo, mausoleo o memoriale. Come sostenuto da Bassanelli e Postiglione (Bassanelli, Postiglione, 2012), l’azione progettuale diffusa non coincide qui con una “messa in vetrina” di reperti, tracce e macerie, bensì con un loro ritorno nel circuito della vita delle cose e delle persone: l’intero processo progettuale, dalla fase conoscitiva in poi, implica in questo senso una riappropriazione dei luoghi, delle loro memorie e delle loro storie.
Evitando sia la pura invenzione sia la ricostruzione storicistica o arbitraria, gli architetti hanno disposto all’interno del Forte una serie di strutture metalliche quali scale, piattaforme, passerelle, corrimano, balaustre e panchine. Nonostante la prima sensazione, appena entrati, possa essere di disorientamento, il visitatore è attratto dalle nuove strutture, che si inseriscono negli spazi interni e sui fianchi della montagna, stimolando curiosità e rispetto per un luogo in cui le truppe vivevano la propria quotidianità mentre erano impegnate nelle azioni di attacco e difesa. Il potere della fabbrica rimane dunque intatto (Torsello, 1997) e l’intervento riesce a provocare “stimoli critici e scientifici”, tenendo vivo l’esercizio dell’interrogazione, piuttosto che surrogarla con il compiacimento imposto dal restauratore.
Foto: Federico Calabrese
Foto: Federico Calabrese
Foto: Federico Calabrese
Nella parte centrale del Forte, piattaforme e parapetti illuminati indirettamente lungo il loro perimetro ricordano, senza necessariamente ricostruirlo com’era, lo spazio delle baracche di legno dei dormitori delle truppe, all’interno delle grotte, mentre nelle grandi sale sono le tracce a terra – i frammenti di cordolo in cemento che erano base delle strutture in legno – ad essere riusate nella loro funzione.
Foto: Federico Calabrese
Proseguendo, un’intricata rete di tunnel conduce alle nicchie dell’artiglieria leggera, dove piccoli affacci dalle forme differenti spuntano dal fianco della montagna, come se piccole esplosioni fossero avvenute al suo interno. In uno di questi spazi è ospitata una singolare macchina ottica che racconta una delle innumerevoli storie di questo luogo: attraverso una piccola scala a pioli si accede infatti a un foro nella roccia, attraverso il quale era possibile comunicare, senza essere visti, con una casa “amica” in fondo alla valle.
Foto: Federico Calabrese
Foto: Federico Calabrese
Elemento di grande importanza per il progetto è infatti il paesaggio, in questo caso fortificato e artificiale. Come fatto notare da Bassanelli e Postiglione (Bassanelli, Postiglione, 2012), i conflitti in generale, e in particolare quelli delle due Guerre Mondiali, presentano un forte legame con il paesaggio, perché oltre a ospitare i segni materiali e non delle sue trasformazioni, esso è fondamentale elemento di protezione e riparo, come è chiaramente percepibile nel Forte Pozzacchio, il cui paesaggio-palinsesto è costituito da strati sovrapposti, che rappresentano elementi spesso traumatici della sua storia.
Nella parte superiore del grande pozzo, ad esempio, una passerella metallica recupera la forma della struttura sulla quale sarebbero state montate le cupole di tiro, sulla sommità della cresta della montagna. È il punto di contatto tra terra e cielo: una esplosione. A partire dalle tracce esistenti, l’intervento lascia dunque supporre ciò che sarebbe potuto essere il luogo.
Foto: Federico Calabrese
Foto: Federico Calabrese
L’uso di un solo materiale, il ferro, conferisce maggiore forza all’intervento, le cui strutture – disposte in modo da determinare una sequenza di punti, superfici e piani più o meno densi e trasparenti, i cui vuoti e pieni si alternano ritmicamente – sono dipinte interamente con il colore rosso minio, che se da un lato ne esalta la materia, dall’altro dichiara la propria appartenenza alla dimensione minerale del luogo.
Foto: Federico Calabrese
Foto: Federico Calabrese
Foto: Federico Calabrese
“L’espandersi, al tempo stesso, agile e potente, di una massa nello spazio”, insieme all’uso del minio, rimandano alla scultura Grande Ferro Sestante che Alberto Burri realizza nel 1982, ospitata nell’Ex Seccatoio Tabacchi a Città di Castello (Aa.Vv., 1987). La macchina pensata da Collotti e Pirazzoli sembra infatti, come un antico sestante, orientare i visitatori all’interno del forte, accompagnandoli nella lettura e appropriazione di questo documento della memoria.
Alberto Burri, Grande Ferro Sestante, 1982.
Fonte: Comitato Linguistico
Similmente alla scultura di Burri, l’intervento sul Forte Pozzacchio appartiene al suo contesto, definendone le relazioni fisiche e concettuali, ricreandone gli spazi di transizione tra esterno e interno, lasciando che le nuove inserzioni sui limiti della montagna interagiscano con il paesaggio con più intensità che ai tempi del conflitto, stabilendo nuove connessioni.
Foto: Federico Calabrese
Il tema della memoria in relazione allo spazio si amplifica alla fine dei conflitti mondiali, quando le città e il paesaggio si presentano come resti dei teatri di guerra. È Pierre Nora che negli anni ottanta definisce il concetto di lieux de mémoire, per indicare uno spazio, come un museo, un monumento, un particolare territorio o località caratterizzato da eventi storici o traumatici che lo hanno segnato fino a farlo divenire contenitore della memoria collettiva.
Da questo punto di vista, il Forte Pozzacchio è difficile da conservare e valorizzare, dato che è portatore di una memoria collettiva scomoda, costituita da segni ed elementi materiali e tangibili e al tempo stesso da elementi immateriali: racconti, storie, ricordi che pur non avendo una loro presenza fisica, imprimono un profondo segno ´ sulla memoria del luogo.
In un sistema complesso fatto di elementi in tensione dialettica costante, dove entrano in gioco fragili memorie e cicatrici recenti non ancora rimarginate, il progetto di Collotti e Pirazzoli per il Forte Pozzacchio rappresenta una possibile terapia di superamento del trauma.
Bibliografia
Aa.Vv. Burri il Viaggio Sestante Annottarsi. Città di Castello: Petruzzi, 1987.
Bassanelli, M., Postiglione, G. Museografia per il paesaggio archeologico nei conflitti del XX secolo in Europa. In The Archaeological Musealization. Multidisciplinary Intervention in Archaeological Sites for the Conservation, Communication and Culture. Allemandi: Torino, 2012.
Bellini, A. Dal restauro alla conservazione: dall’estetica all’etica. In: “Ananke”, n.19, p. 17-21, set. 1997.
Torsello, P. Conservare e comprendere. In Pedretti, B.(Org.). Il progetto del passato: memoria, conservazione, restauro, architettura. Milano: Mondadori, 1997.
Autore
Federico Calabrese (1972) è architetto (1998) e Professore di Composizione Architettonica presso la Facoltà di Architettura e Urbanistica della Università Federale da Bahia, FAU-UFBA. Progetta e realizza nel 2007 la Biblioteca Comunale San Giorgio di Pistoia, e nel 2009 il progetto del Padiglione del Montjuic a Barcellona è Finalista Menzione d’Onore alla Medaglia d’Oro dell’Architettura Italiana. Suoi progetti sono stati esposti al MAXXI, al padiglione Italiano della Expo di Shangai e alla Triennale di Milano e pubblicati in riviste internazionali, tra le quali A10, Paysage, Metalocus, l’Arca, Quaderns. Suoi testi sono stati pubblicati in riviste in Italia e all’estero quali, Plot, Ananke, Compasses, Dromos.
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