Gabinete de Arquitectura: delle questioni implicite nella tecnica

massa critica | francesco ranocchi

A partire da una problematizzazione del progetto curatoriale di Aravena per la XV Biennale di Architettura di Venezia, Francesco Ranocchi riflette sull’opera di Solano Benitez, e sul valore dell’assegnazione del Leone d’Oro come miglior progettista al suo Gabinete de Arquitectura.   

08_teleto%c2%a6un-federico-cairoli-lowCentro di Riabilitazione Infantile Teletón © Federico Cairoli

È sempre qualcosa al di là delle questioni esplicitate dalla tecnica, qualcosa di speciale, che ci coinvolge nell’architettura; speciale nel senso che la possiamo percepire come un nostro aspetto fondamentale, anche se è sì e no evidente; qualcosa che potremmo definire: le questioni implicite nella tecnica.

Così, nella storia, questo altro si è strutturato in una catena di narrazioni, interpretate e reinterpretate, che ci raccontano chi siamo.

L’architettura della società di massa ha fatto slittare questa narrazione insieme corale e individuale nel piano della pubblicità, della propaganda, della riduzione funzionale alla vendita del prodotto. L’architettura si è adeguata perfettamente al linguaggio pubblicitario, sviluppando quella che ho definito forma icastica1, un’espressione schematica e riduttiva, ma immediatamente assimilabile dal pubblico. Così se il progetto dà prevalenza alla forma plastica, spesso non va oltre il rivestimento di metri cubi con un’immagine insieme emblematica e monotematica; se dà prevalenza al messaggio, indossa un habitus, quale sia (ma alcuni sono più efficaci di altri): anticonformismo o conformismo, semplicità o complicazione, etc. Ma la sua forma espressiva è sempre la stessa, quella, appunto, icastica. La forma evidente, ma come riduzione semantica.

11_teleto%c2%a6un-federico-cairoli-lowCentro di riabilitazione infantile Teletón © Federico Cairoli

Non sfugge a questa condizione la retorica del Reporting from the Front di Aravena. Ho già espresso varie volte le mie perplessità circa un messaggio che si destreggia sulle contraddizioni tra esigenze sociali dei più poveri e risposte dei più ricchi, cercando di coniugare altruismo e vantaggio personale, politiche sociali e residui del neoliberalismo cileno post-golpe. Con in più l’illusione che la sfera pubblicitaria corrisponda al potere economico-politico in maniera semplice, senza vedere che, anche se con indubbi vantaggi personali per chi sa sfruttarla, questa visione perpetua il ruolo e la figura dell’architetto come giullare di corte, come in fondo sono e sono state le famigerate archistar…

Al di là di tutto questo c’è però una condizione reale fatta di esigenze, di urgenze, di scompensi sempre più drammatici generati da questa fase dell’economia globalizzata, che si sommano alle già difficili situazioni di sussistenza di milioni di persone.

Ben venga in questo senso qualsiasi passo, che sia un aiuto tangibile, materiale, o un messaggio che muova le nostre pigre coscienze. Va da sé che qualsiasi tentativo di sfruttare a proprio tornaconto la situazione sarà invece estremamente disgustoso; e, già dalle premesse, di falsità nella XV Biennale di Architettura di Venezia se ne percepisce molta.

06_gabinete-de-arquitectura-ph-federico-cairoli-lowGabinete de Arquitectura © Federico Cairoli

Ma il Leone d’oro al Gabinete de Arquitectura è un dato senz’altro positivo. L’architettura di Solano Benitez (padre e figlio) e Gloria Cabral rappresenta (da anni) una risposta piena d’immaginazione ad alcuni dei temi scelti come oggetto di questa Biennale.

Con intelligenza la giuria ha scelto chi è davvero in grado di rappresentare le intenzioni programmatiche della mostra e ha una storia personale capace di sovrapporsi alle ombre e ai dubbi che questa ha suscitato. Certo, non si può affrontare la questione con ingenuità e pensare che sia possibile avere da un lato solo i furbi e dall’altro solo gli eroi… Fredy Massad incalza così Benitez nella sua intervista del 14-4-2014: “trabajos como el de Anne Heringer, Francis Kéré y el tuyo ya estaban haciéndose mientras el mundo miraba hacia otro lado y aupaba en pedestales a esta especie de aristocracia arquitectónica que trabajaba en plena connivencia con los peores aspectos del neoliberalismo. Por ello, cuando aparecen arquitectos con un mensaje distinto, como tú, me resulta irritante comprobar que se efectúa de ellos un idéntico uso comercial”2. È chiaro che uscire dall’ambito dell’industria culturale o della società dello spettacolo è impossibile, tanto più quando ci si entra come poli d’attrazione… indipendentemente da quanto si è disposti a scendere a compromessi con il potere economico, ma proporzionalmente a quanto, come Aravena, si è disposti a sostenere una architettura-elemosina3.

01_quincho-ti%c2%a6ua-coral-federico-cairoli-lowQuincho Tia Coral © Federico Cairoli

Comunque, al di là di tutto questo, quello che personalmente ci attrae di Benitez e del GDA è semplicemente la qualità dell’architettura, la capacità di offrire un uso immaginativo della tecnica e qualità estetiche a soluzioni nate dai vincoli, dalle necessità, dalle condizioni contenute in ogni progetto, che siano questioni economiche, situazioni climatiche, limitazione di mezzi e di materiali; la risposta ha sempre una quantità mirabile, appunto speciale, di spunti d’interesse. Insomma, le questioni implicite nella tecnica del GDA, anche quando esposte dalle stesse tribune di colleghi di più dubbia fama, ci convincono; almeno, ci piacciono.

GDA sviluppa e semplifica la tradizione della ceramica armata che, per quanto può sembrare singolare e locale, è stata utilizzata per realizzare più di un milione di metri quadrati di strutture affascinanti (ed economiche) dal solo Eladio Dieste, in buona parte nell’America Latina, ma anche in Spagna. La arricchisce di una sensibilità plastico-spaziale di natura differente, attenta alle superfici, alle trame del rapporto tra luci e ombre, e di un gioco affascinante tra semplicità materiale e certa complessità concettuale.

A ben vedere si tratta più di una attitudine di lavoro, e non è un gran corpus di progetti a sfondo sociale che li distingue, ma una pratica attenta a una concezione semplice e profonda dell’architettura, capace di offrire progetti economicamente accessibili e tendenzialmente sostenibili.

Parliamo di uno studio che conta tra i suoi clienti l’Unilever (è divertente sentir parlare Benitez con ironia, un po’ dovuta, di questi loro incarichi)4, ossia in qualche modo stiamo ancora nell’ambito di queste attuali, deboli interpretazioni del binomio architettura o rivoluzione, che vedono slittare l’idea di un impossibile cambiamento radicale, tra gli opposti della sottomissione a indulgenze ed elemosine, autoritarismo e vassallaggio, oppure del volontariato e di micro-interventi fatti di impegno personale.

16_quincho-ti%c2%a6ua-coral-federico-cairoli-lowQuincho Tia Coral © Federico Cairoli

Benitez propone una architettura che risponda alle questioni sociali attraverso la relazione tra tecnica e organizzazione della società, dove l’architetto apporti la sua capacità di immaginazione e di innovazione secondo un’idea di costruzione sociale attenta alle condizioni e alle possibilità del sistema produttivo, nel caso, del Paraguay, un paese dalla difficile situazione politica, dove la popolazione si è quadruplicata in cinquanta anni ed è per circa il 70% inurbata, e dove distribuzione della ricchezza e buon uso del territorio non sembrano appartenere alla sensibilità politica dominante. Un’idea di ruolo sociale attivo dell’architettura forse ancora possibile proprio per le condizioni economico-sociali del paese, controverse, ancora legate all’agricoltura, dove la colonizzazione delle industrie manifatturiere multinazionali è in fase iniziale, entrando per la strada delle maquiladoras, lo sviluppo e assemblaggio di semilavorati.

Così Benitez ripete: la construcción más importante que debemos llevar a cabo es la construcción de nuestras sociedades y del sentido de lo humano, una frase d’effetto, certo, ma più chiara e incisiva di tante parole generosamente elargite nei testi ufficiali della Biennale.

E proprio questo è il punto, lo humano, un’interpretazione umana della tecnica, altrimenti disumanizzante; questo non può dipendere da ciò che cede pietosamente, appunto l’elemosina, chi detiene il potere economico, ancor meno in questo sistema ultra-liberista: ossia da un lato generando scompensi enormi con una gestione rapace delle risorse, dell’economia, della forza lavoro; dall’altro facendo propaganda alla propria buona coscienza nell’offrire una mezza casa (forse domani un quarto?). No, questa non si definisce propriamente buona coscienza, e non c’è bisogno di esser marxisti per definirla correttamente. Basta chiamarla grande balla. Sarebbe una bella ingenuità pensare di poter combattere un sistema che rinforza i suoi sistemi di sfruttamento attraverso lo spettacolo pubblicitario, facendo pubblicità alle buone azioni, magari con lo sponsor di qualche multinazionale.

01_fada-una-ph-federico-cairoli-lowFada – Una (in cantiere) © Federico Cairoli

Nel presentare la XV Biennale si afferma la necessità di “ampliare la gamma delle tematiche cui ci si aspetta che l’architettura debba fornire delle risposte, aggiungendo alle dimensioni artistiche e culturali che già appartengono al nostro ambito, quelle sociali, politiche, economiche e ambientali”, dimenticando che ne hanno sempre fatto parte; né si intende come possa trascurarle la cultura, né in che modo possano essere ritenute campi estranei alla tecnica… Bastano queste poche parole per rivelare la confusione attorno alla quale si è sviluppata questa Biennale. Forse davvero l’umanità, oltre alla risposta ha dimenticato pure la domanda… Perché, in senso concreto o concettuale, è proprio umanità la parola da opporre a tutto questo; come quella che mostrano e dimostrano Benitez e compagni nelle questioni implicite nella tecnica (basta con que el entorno de un edificio se perciba, se sienta y se use como amigable, fraterno, produzca sombra, produzca belleza)5; e proprio per questo spero che, contrariamente ad altri “santi” guerrieri loro colleghi, se parliamo di ruolo sociale dell’architettura, siano consapevoli dei limiti e degli schieramenti del campo di battaglia.

Note
1. F. Ranocchi, Un’introduzione all’architettura della società delle reti, UDG, 2011 e L’architettura: dalla società dello spettacolo all’era delle reti, PhD Dissertation, UDG, 2011-5.
2. Fredy Massad, Entrevista a Solano Benítez, el penúltimo carismatico, Blog La viga en el ojo.
“Lavori come quello di Anne Heringer, Francis Kéré ed il tuo già si stavano portando avanti mentre il mondo guardava dall’altra parte e collocava su piedistalli a questa specie di aristocrazia architettonica che lavorava in pienna connivenza con i peggiori aspetti del neoliberalismo. Per questo, quando appaiono architetti con un messaggio diverso, come te, mi irrita il fatto che se ne faccia lo stesso sfruttamento commerciale.”
3. Fredy Massad, Aravena, la autoconstruccion de una infamia, Blog La viga en el Ojo.
4. Vedere, ad esempio, la conferenza alla Bienal Panamericana de Quito, 2012.
5. Intervista a Solano Benítez di Brigitte Colmán, Ultimahora.com, Gennaio 2016.

Autore
Francesco Ranocchi è architetto e storico dell’architettura. Nel 2005 con Nadina Zander fonda lo studio awarquitectes, con sede a Girona (Spagna).

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