Il presente testo si lega a molti dei post pubblicati nei mesi scorsi su questa piattaforma. In primo luogo, infatti, esso forma parte di una catena di scritti – direttamente o indirettamente – dedicati alla figura di Bruno Zevi, che qui compare nelle vesti dell’autore di Poetica dell’architettura neoplastica: saggio pubblicato nel 1953 da Tamburini e ripubblicato (con alcune significative modifiche) da Einaudi nel 1974, di cui Valter Scelsi svolge qui un’acuta e approfondita analisi. In secondo luogo, questo scritto rimanda ad alcune delle considerazioni precedentemente svolte da Pietro Valle e Luca Silenzi, offrendo alle loro tesi un interessante precedente storico, nonché un luogo di confronto. Irrinunciabile, poi, il riferimento al numero 9 di “San Rocco”, Monks and Monkeys, dedicato all’architettura minimalista, vero tema di fondo di questo scritto. L’ipotesi qui sviluppata da Scelsi – secondo cui una ricezione dottrinale del saggio di Zevi, e in particolare dell’edizione del 1974, fece sì che in Italia “i principi applicativi della poetica neoplastica” venissero in molti casi assunti quali “norme di un sentire diffuso e condiviso” – è intrigante e degna di attenzione, anche se non sufficiente a spiegare la particolare fortuna che il termine “minimal” ha ottenuto in Italia a partire dagli anni Ottanta (ma questo, Scelsi, lo dichiara apertamente). Soprattutto, il presente scritto porta alla luce in maniera esemplare l’importanza della teoria nella definizione della pratica architettonica, suggerendo come il passaggio da astrazione a costruzione, da testo a progetto, sia tutto sommato inevitabile, e dunque come tale relazione debba essere trattata con la massima cura.
Davide Tommaso Ferrando
In Italia il temine minimalista ha avuto, nell’ultimo decennio del Novecento, una diffusione talmente ampia da essere in grado di richiamare l’attenzione anche su fatti marginali, di costume o di cronaca. Il mercato lo aveva adottato ed era pronto a proporlo come vertice del gusto dell’epoca a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio. Dovendo fare – al di fuori del clima artistico – a meno di presupposti teorici espliciti, il minimalismo veniva (e viene) spesso definito alla stregua di uno spirito comune, un sentire diffuso capace di tradurre istanze presenti in un ampio intervallo compreso tra ripiegamento esistenziale e animismo new-age. Tuttavia, malgrado notevoli diffusione e popolarità, si direbbe che la definizione nascesse già rifiutata da quanti ne venivano definiti. Caratteristica, questa, tipica di molte definizioni critiche, si potrebbe obiettare, ma nel caso specifico manifestantesi in maniera estremamente palese e diffusa. In architettura, se si esclude qualche isolato professionista che ne intuisce il potenziale commerciale e se ne dichiara convinto sostenitore, non esistono autori, gruppi o scuole di rilevanza che si riconoscano apertamente nella definizione Minimal. I riferimenti della cultura minimal, qualora si fosse sentita la necessità di citarli, oscillavano tra gli assunti “pseudo-miesiani”, lo stile contemporary americano, il lavoro di Tadao Ando, la sintesi formale della reggia imperiale di Katzura o della casa eoliana di Salina e Filicudi.
A ben vedere, però, un simile successo di pubblico non avrebbe potuto davvero fare a meno di passare per l’appoggio degli architetti. E infatti, se anche ne rifiutano la gabbia della definizione, molti lavorano, a partire dagli anni ’80, per il successo del prodotto minimal. Convinti che la sua diffusione possa, finalmente, fare giustizia delle posizioni legate alla postmodernità e, soprattutto, possa restituire la pratica delle più chiare norme comportamentali dell’architetto moderno. Dove non si era riusciti con gli appelli all’ortodossia progressista, si poteva riuscire adesso con l’aiuto delle riviste glam. Tutto ciò, anche se quotidianamente appare nella sua veste grottesca della lotta al battiscopa o della crociata contro lo stipite, o in quella commerciale degli attributi “essenziale” e “rigoroso” regalati alle cucine brianzole, ha un’origine culturale rinvenibile e perfino testi di provenienza. L’ipotesi è che uno di questi sia stato scritto, in italiano, molto prima dell’emersione del fenomeno. Si tratta di Poetica dell’architettura neoplastica, di Bruno Zevi. Quando la Libreria Editrice Politecnica Tamburini di Milano lo pubblica nel 1953, il suo autore ha trentacinque anni.
Il libro viene prodotto dalla Associazione Libera Studenti Architettura del Politecnico di Milano (il comitato direttivo comprendeva Gustavo Latis, Angelo Mangiarotti, Alberto Rosselli), e prima dell’indice riporta una dedica “agli studenti della Scuola di Perfezionamento in Storia dell’arte dell’Università di Roma, ricordo del corso 1950-51”. Il tono assertivo del primo capito, in cui si tratta di come “Theo van Doesburg giunge alla Bauhaus”, e la volontà di inquadrare le personalità preminenti dell’epoca nel quadro della vita di van Doesburg suggeriscono una derivazione didattica, come, del resto, farebbe da sola la dedica in apertura. Inoltre, il flusso di parole non è mai interrotto da rimandi a note. Il testo è diviso in capitoli, dotato di una buona bibliografia e di 184 illustrazioni, ma totalmente privo di note.
Giova dire che il libro, come tutte le lezioni, è principalmente una storia, un racconto, quindi ha un protagonista, Theo Van Doesburg, che entra in scena nella prima pagina, dopo poche righe di preambolo, e ne esce nell’ultima frase dell’ultima pagina. Come in tutte le storie ci sono alcuni nemici, descritti con un’enfasi che ha accenti psicologici tipici dell’epoca (“un grave complesso di inferiorità impedisce ancora a molti di vedere l’architettura”), alcuni nominati chiaramente, come il gruppo Wendingen, altri genericamente identificabili in alcuni atteggiamenti diffusi o posizioni critiche, naturalmente descritti come tipici di chi non ha capito. Un protagonista, la presenza di buoni e cattivi e l’assenza di note fanno assomigliare il tutto a certe biografie divulgative molto in voga all’epoca, prodotte per la biblioteca del curioso generico, lettore avido di fatti privati di grandi della storia raccontati in stile romanzesco e, soprattutto, senza citare le fonti.
Il lavoro di Zevi produce un libro ben organizzato. Il programma del volume è molto chiaro ed esposto alla fine del primo capitolo: i 17 punti dell’architettura neoplastica, le teorie sul colore, le impostazioni urbanistiche saranno rispettivamente i contenuti dei capitoli secondo, terzo e quarto.
Come risulta chiaro dal programma, il vero centro del libro è costituito dall’elenco dei 17 punti che costituiscono il manifesto: la forma, che è a posteriori; gli elementi (funzione, materia, volume, tempo, spazio e colore); l’economia dei mezzi, il disprezzo per lo spreco; la funzionalità; l’accettazione dell’informe in cui riversare gli spazi funzionali; il rifiuto del monumentale; il superamento della finestra intesa come buco nel muro; la pianta aperta e la fine del dualismo tra interno ed esterno; l’apertura, invece che la chiusura, con suddivisioni fatte grazie all’aiuto di matematiche non euclidee e del calcolo quadridimensionale; l’integrazione di spazio e tempo, cioè lo spazio animato; la plasticità della dimensione spazio-temporale; la componente antigravitazionale; la soppressione della simmetria e il rapporto equilibrato di parti diverse; la plasticità poliedrica spazio-temporale; l’assunzione organica del colore all’interno della costruzione; la nuova architettura antidecorativa; l’architettura come sintesi delle arti plastiche.
Zevi nell’analizzare il manifesto si pone una domanda: quanti architetti potrebbero riconoscersi in tutti i punti? Risponde affermando che potrebbe farlo il solo Mies, che diviene, così, “il protagonista maggiore degli ideali neoplastici.”
Il libro, per il resto, è ricco di intuizioni felici. Una di queste è che nel modo figurativo europeo del Novecento si sarebbe parlato in tedesco e, quindi, se il neoplasticismo voleva acquistare cittadinanza europea doveva passare in Germania, principalmente dal Bauhaus. L’intuizione è importante, del resto è la lingua tedesca a costituire veicolo internazionale del neoplasticismo, anche quando è parlata in Svizzera, ad esempio, dove, a partire dal 1924, l’interesse per la nuova architettura olandese diviene crescente. La rivista svizzera ABC – sostiene Jacques Gubler – è in gran parte il risultato del contatto tra la nazione alpina e l’Olanda.
Un’altra “questione della lingua” coinvolge tutto il testo: la presenza dei testi in francese non tradotti è sproporzionata per un libro italiano. Rende ostica la comprensione profonda a chi non possegga quella lingua che, all’epoca, forse poteva ancora illudersi di contrastare l’inglese per diffusione sul nostro territorio, ma che stava rapidamente avviandosi, anche in Italia, all’attuale condizione di marginalità. Quale ne sia la ragione, non è chiaro. Si potrebbero avanzare ipotesi diverse, comprese tra necessità contingenti (dimensione del volume, costi di traduzione, fretta) e scelte strategiche (o, se si preferisce, scientifiche).
Nel volume, gli appoggi teorici esterni alla disciplina strettamente architettonica sono piuttosto rari, se si escludono i ripetuti riferimenti a Benedetto Croce, inoltre la parola neoplasticismo è scritta sempre in minuscolo, quasi a renderla attributo dell’architettura (come, in effetti, figura nel titolo).
Il nome dell’architetto che più di ogni altro è legato all’azione critica di Zevi, Frank Lloyd Wright, compare all’inizio del secondo capitolo, per venire definito neoplastico “al di fuori di ogni gruppo” nel giro di poche pagine. All’inizio del terzo capitolo (Prosatori e poeti del neoplasticismo) Zevi elenca i letterati della poetica neoplastica, con precisione e con ricorso ad immagini di architetture realizzate da ciascuno.
Ancora si torna sui legami tra il movimento e Mies: “Le esposizioni del Novembergruppe, la rivista di Theo van Doesburg a Berlino, la rivista G e la collaborazione con Ricther, gli echi dell’influenza esercitata dal capo di De Stjl a Weimar permettono a Mies di riconoscere in profondità la poetica del neoplasticismo e di impossessarsene. La lezione fondamentale del movimento – la scomposizione della scatola edilizia in liberi piani – è da lui appresa immediatamente. E non più dimenticata.”
Sostanzialmente, la dichiarata strumentalità critica dello studio del Neoplasticismo viene rivolta, nell’ultimo capitolo, nella direzione di un processo anatomico a scopi didattici. “L’indagine neoplastica induce ad una maggiore familiarità col processo edilizio e permette di controllare con certezza la coerenza di un linguaggio dei volumi, delle superfici e delle decorazioni.” Zevi tenta, in fondo al libro, una sintesi di quanto non necessita di sintesi. Quello che rimane attivo del Neoplasticismo è quello che lui colloca nel centro esatto del libro: è l’elenco dei 17 punti.
Nel 1974 Zevi compie un interessante revisione del testo, pubblicata da Einaudi con il titolo di Poetica dell’architettura neoplastica. Il linguaggio della scomposizione quadridimensionale.
La forza dell’opera a distanza di anni si misura non tanto nei prevedibili giudizi contenuti sui personaggi dell’epoca, ma nel mettere insieme un corpo di regole che costituiscano una teoria, magari dottrinale, ma potenzialmente in grado di generare architettura. E’ un van Doesburg che parla le parole perfette per Zevi, il quale, infatti, le misura collocandole tra quelle di Le Corbusier e di Wright.
Grazie a Zevi i principi applicativi della poetica neoplastica sono diventati norme di un sentire diffuso e condiviso. Sono istruzioni disponibili e capaci di generare conseguenze culturali allo stesso modo della trattatistica classica. Il testo di Zevi diventa un trattato oltre ogni sua previsione, sostegno e miniera di informazioni per chi volesse rifarsi a un purismo delle origini. Fissa le regole pratiche di un certo moderno ortodosso, regole di chiaro e pronto uso.
Progressivamente sfuma Theo van Doesburg, che è stato il protagonista dell’appassionato racconto, e rimangono le sue frasi, come un prontuario del fare architettura moderna (la nuova architettura è elementare, è anti-monumentale, è anti-decorativa, è contraria alla simmetria, è informe perchè non ha tipi immutabili). Zevi ipoteca il futuro: Theo van Doesburg dice il come della nuova architettura, e poi scompare dalla scena. Molti anni dopo le sue frasi sono usate senza revisione critica o prospettiva storica, impiegate come formule dell’architettura moderna, quando quella architettura moderna non esiste più. Sono il feticci dello pseudo-purismo, la nuova e disponibile alibi del mercato del cheap-design.
Valter Scelsi
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