massa critica | giovanni corbellini
Terzo anello di una nascente catena di scritti (direttamente o indirettamente) dedicati alla figura di Bruno Zevi, questo bel testo di Giovanni Corbellini affronta il suggestivo tema della – difficile – ricezione delle teorie del critico romano a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. Se infatti, da un lato, l’Accademia italiana si dimostrava refrattaria alle speculazioni spaziali del suo organicismo di importazione americana, preferendo a queste una didattica basata su “un vocabolario semplificato, basato sugli archetipi, sull’analisi urbana, su una lettura “scientifica” dell’edilizia consolidata e delle sue articolazioni tipo-morfologiche”, dall’altro il “liberi tutti” postmoderno aveva portato a una rapida esaustione dell’interesse critico verso le sperimentazioni linguistiche di cui Zevi, attraverso le pagine di “L’architettura cronache e storia”, si faceva appassionato sostenitore. Come conseguenza, la ricerca spaziale Zeviana venne presto interpretata – e forse non a torto – come un inseguimento autoreferenziale della “forma per la forma”: un’esasperazione della funzione espressiva dell’architettura, a prescindere da necessarie riflessioni sulle sue condizioni di produzione. Corbellini racconta queste e altre vicende da un punto di vista squisitamente personale, costruendo un piccolo spaccato della cultura architettonica italiana di quegli anni, e incastonando al suo interno una serie di acute osservazioni, accompagnate da una più che utile bibliografia di riferimento.
Davide Tommaso Ferrando
Capita a volte, scrivendo, di riflettersi nella propria riflessione, di scorgere cioè in una certa configurazione del reale qualcosa di noto, come quando si danno nomi alle costellazioni o si riconoscono forme particolari nelle nuvole, indipendentemente dal fatto che abbia senso per un certo allineamento di stelle rappresentare una bilancia o per del vapore acqueo in sospensione nell’aria sembrare un enorme coniglio. È un rischio cui Valerio Paolo Mosco si espone generosamente nel suo recente Not Quite Architecture, attribuendo al lavoro di Stefano Pujatti un inopinato zevianesimo. Sulla fattispecie dell’approccio di Elasticospa nella sua interpretazione moschiana ha già abbondantemente trattato Pietro Valle, sempre su queste pagine, e non c’è gran che da aggiungere alle sue precise confutazioni. Mi concedo allora di fare come il proverbiale imbecille, puntando il mio sguardo sul dito invece che fissare la luna. Anche perché il genere autoriflessivo propostoci da Valerio tende a usare il dipinto per parlare della cornice e tutto mi fa pensare che un commentatore raffinato come lui abbia accostato Pujatti (tra i più talentuosi e interessanti architetti di oggi) a una figura controversa come Bruno Zevi con lo specifico obiettivo di riportare la nostra attenzione su quest’ultimo.
Per noi polli dell’allevamento veneziano (da cui sono passati pure Stefano e Pietro, anche se poi loro hanno completato la loro formazione negli Stati Uniti) Zevi è una sorta di oggetto non identificato, quanto segue è perciò più una sommatoria di impressioni che un giudizio seriamente fondato su una conoscenza approfondita. Sebbene lo storico romano fosse una delle punte dello Iuav di Samonà e gran parte dei nostri maestri siano stati suoi allievi diretti, non si può certo dire che questi ultimi abbiano promosso entusiasticamente il suo pensiero. Anzi, tra le molte censure che contraddistinguevano quella scuola il silenzio che circondava Zevi e le sue idee era coltivato con particolare impegno e si estendeva anche alle “derive estetizzanti” dell’organicismo tutto. Quindi, poco Alvar Aalto, quasi niente Wright (per assistere a lezioni su questi maestri, splendide, ho dovuto aspettare il “libertario” Gregotti al quarto anno) e Scarpa confinato nella riserva indiana dell’arredamento, esame peraltro facoltativo. E, comunque, mai Zevi. Certo, erano gli anni dell’università di massa e impostare corsi per centinaia e centinaia di studenti sulla base di ricerche così complesse, senza la materiale possibilità di discutere al tavolo i progetti, era effettivamente poco plausibile. Tanto che mi sono fatto l’idea che la Tendenza abbia ricevuto una spinta decisiva proprio dalla pressione didattica: insegnare l’architettura o, più precisamente, una sua versione fortemente ideologizzata attraverso un vocabolario semplificato, basato sugli archetipi, sull’analisi urbana, su una lettura “scientifica” dell’edilizia consolidata e delle sue articolazioni tipo-morfologiche, gestibile gerarchicamente da una torma di assistenti e verificabile sulla base della conformità appariva a quel tempo una strategia sostenibile, almeno per la sopravvivenza del docente…
Fatto sta che a iniziarmi nelle mie sporadiche frequentazioni zeviane è stato Francesco Tentori, che del nostro era stato studente a Venezia e con il quale aveva mantenuto un contatto piuttosto stretto (si scrivevano spesso, dandosi rigorosamente del lei, e da qualche parte dovrebbe essersi conservata traccia del loro voluminoso carteggio). Da poco chiamato a insegnare allo Iuav, Tentori dimostrava una certa irrequietudine verso le liturgie lagunari e, seguendo il suo spirito antidogmatico (suo e di Zevi), mi stimolava a leggere di tutto. A un certo punto mi mise in mano Saper vedere l’architettura, uscito nel 1948, con il preciso scopo di introdurmi alla valutazione percettiva degli esiti architettonici e alla “consistenza” relazionale dei vuoti. Si trattava di una prospettiva diametralmente opposta a quella della “composizione”, principale divinità della nostra scuola. Quest’ultima è astratta, virtualmente indipendente dalle condizioni locali, dalla scala, dalla materia, dalla luce…, tende a confrontarsi solo con l’autorità della storia come pura costruzione intellettuale. Mentre la percezione implica una negoziazione continua con la realtà e, in termini architettonici, con lo spazio, vero protagonista di questo saggio, mi rendo conto ora, particolarmente importante nella mia formazione.
Anche in questo caso, come nel suo primo libro, Verso una architettura organica, 1945, e poi con Il linguaggio moderno dell’architettura, 1973, Zevi parassita un titolo famoso (Saper vedere, di Matteo Marangoni, dedicato alle arti visive, era uscito quindici anni prima, nel 1933), dichiarando esplicitamente la sua inclinazione a giocare di sponda: a partire da una inziale continuità e, con crescente pervicacia, alla ricerca di radicali contrapposizioni. L’articolo di Mosco mi ha fatto riprendere in mano proprio la risposta a Summerson (autore di The Classical Language of Architecture, 1963) che riposava nella mia libreria da quasi trent’anni. L’ho ritrovato pieno di segni ondulati (il mio codice di sottolineatura per le cose poco convincenti) e di appunti dubbiosi: “perché? ma dove? quando mai; lasciamo stare”… Già, perché Zevi aveva qui adottato uno stile apodittico e contraddittorio, più vicino alla furia di un predicatore che all’argomentare del critico. Anche le sue intuizioni più condivisibili finivano per rimanere isolate o, più spesso, indebolite da esempi incongruenti o letture parziali, incomplete perché, appunto, di parte. Se il dispositivo negativo delle invarianti zeviane (definite come comportamenti da evitare per essere autenticamente moderni) dimostrava indubbie capacità di apertura verso la frammentaria indeterminazione del mondo contemporaneo, l’individuazione di nemici sulla base di un mero pregiudizio formale, solo episodicamente sostenuto da questioni di sostanza, si condannava da sé a una precoce obsolescenza: le permutazioni della forma sono finite ed è inevitabile che una certa configurazione assuma un carattere progressivo in un momento particolare e diventi reazionaria immediatamente dopo. L’approccio pierceiano attribuito da Mosco all’opera di Elasticospa, secondo il quale “le idee non esistono se non per i risultati che producono”, mi pare allora più consono all’ossessione zeviana per gli esiti, soprattutto se caratterizzati da inaspettate complessità. Le motivazioni di queste ultime, i processi che le avevano generate, persino le interazioni con le condizioni ambientali che ne sostenevano l’efficacia finivano spesso in secondo piano, aderendo a una idea di architettura secondo la quale un fine sorprendente giustifica sempre i mezzi attraverso i quali viene raggiunto. Non che a Zevi mancasse una eteronoma e multiforme curiosità intellettuale. I suoi scritti sono attraversati da aperture ai mondi dell’arte, della scienza, della tecnologia, della filosofia, del costume…, spesso con interessanti anticipazioni su ricerche particolarmente avanzate. Ma tutto veniva poi artificiosamente riportato a una concezione di linguaggio architettonico circoscritta e dominata dall’opera di Wright. Per ironia della sorte, soprattutto pensando alla fierezza “contro” di Zevi, questa stessa fissazione per il linguaggio era condivisa da molti ed esplode di lì a poco nel “liberi tutti” postmoderno (il libro di Jencks, The Language of Post-Modern Architecture, è del 1977), ben più cinico ed efficace nell’interpretare le condizioni di produzione dell’architettura contemporanea. La proliferazione di ricerche individuali che ne è seguita e che ha caratterizzato gli anni ottanta non ha certo prodotto un panorama particolarmente “edificante” (Tentori aveva causticamente inquadrato questa fase culturale in un suo scritto inedito: Nell’epoca dei linguaggi personali, 1988). La loro vacuità autoreferenziale ha spinto molti di noi, che ci siamo formati in quel periodo, a marginalizzare l’importanza del linguaggio, a relativizzarlo, a considerarlo una variabile dipendente e mutevole, un sottoprodotto della ricerca progettuale piuttosto che il centro di ogni intenzionalità architettonica. Zevi, da parte sua, sorpassato a destra dal pluralismo postmoderno, ha reagito alzando la posta: la sua rivista ha cominciato a inseguire la ricerca della forma per la forma, privilegiando i risultati maggiormente eccentrici e stravaganti, tanto più eccentrici e stravaganti quanto più separati dalle loro ragioni. Insomma, rubando a Carlo Verdone uno dei suoi più efficaci tormentoni, la maggioranza dei progetti pubblicati da “L’architettura cronache e storia” proclamavano: “’O famo strano” (e lo dico un po’ anche da “interno”, sia pure solo per le tre o quattro recensioni che, alla fine degli anni novanta, vi ho pubblicato). Ne è derivata quella attitudine insieme polemica e acritica, settaria e militante che, mi sembra, costituisce il tratto distintivo dell’ultimo Zevi e che riemerge tra i suoi più o meno dichiarati seguaci.
Una delle questioni che ci pone Mosco è proprio questa: “la pochezza e grossolanità di idee” che associa ad “architetti e critici che si rifanno alle teorie di Zevi” è dovuta all’azione di questi ultimi o era già dentro il pensiero del maestro? Sono state le “lise confezioni” dei discepoli a ridurne la brillantezza? Scontate una certa tristezza nella condizione di epigoni, l’enorme differenza di carisma (che ci riguarda tutti: i nostri maestri uscivano da una guerra e da esperienze di vita, professionali e di ricerca incomparabilmente più intense delle nostre poco avventurose vicende di baby boomers) e alcune sorprendenti anomalie (una così spiccata attenzione verso la forma farebbe pensare a tutt’altra cura grafica di siti e pubblicazioni) non mi sentirei di dare una risposta definitiva. Alcune delle cose che meno persuadono nell’azione dei continuatori erano già presenti in Zevi. Soprattutto la focalizzazione sull’architettura come forma senza narrativa, come atto isolato dalle sue condizioni di produzione. Uno sguardo tecnicamente pornografico, peraltro condiviso da altri attori sul mercato italiano della critica architettonica, soprattutto da chi sembrerebbe appartenere al partito opposto. Intendiamoci, non si tratta di un giudizio morale, anzi, la pornografia è un genere che, nella sua concentrazione paranoica, svolge una funzione insostituibile. Di più, dovendo e potendo scegliere, piuttosto del fetish patinato di “Casabella”, inclinerei maggiormente verso lo “strano” zeviano…
Al di là delle perversioni personali (architettoniche, naturalmente…), se il pensiero di Bruno Zevi mantiene una sua stretta attualità è probabilmente nell’ostacolare la propria accettazione, nel rendere una impresa quanto mai impervia, come si è visto, esserne credibilmente proseliti. Il suo carattere contraddittorio, il rivelare continuamente e provocatoriamente la propria parzialità sfida a cercare un diverso equilibrio. Stimola, per contrasto, a guardare più in profondità le cose e come sono fatte, a cercare di intuirne le logiche contingenti, per quanto instabile e temporanea possa essere ogni idea di coerenza in architettura.
Giovanni Corbellini
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