Not quite architecture

massa critica | valerio paolo mosco

Varrebbe la pena di soffermarsi sulla prima – perentoria – frase di questo nuovo saggio critico di Valerio Paolo Mosco (“ELASTICOSPA sono gli ultimi degli zeviani”) e costruire attorno a essa un intero convegno: non certo per riflettere sull’evidente debito che lo studio di Stefano Pujatti ha contratto, forse più che con il pensiero del critico romano, con la cultura architettonica che egli ha felicemente importato nel nostro Paese; quanto piuttosto per interrogarsi sul significato e sul valore di una così impegnativa etichetta. In sostanza: cosa vuol dire (o ancor meglio, come si può) essere “zeviani” oggi? La risposta di Mosco a questa implicita domanda è un’articolata analisi del modus operandi di ELASTICOSPA, nel quale l’autore ritrova alcuni dei principi fondamentali della poetica zeviana – la ricerca di un linguaggio basato sulla dissonanza, sulla tridimensionalità antiprospettica, sul coinvolgimento strutturale nell’immagine dell’edificio, sulla “temporalizzazione” dello spazio, sulla “reintegrazione edificio/città/territorio” e […] sulla integrazione tra il linguaggio […] basso e quello alto –, sapientemente concretizzati in architetture tanto audaci quanto equilibrate. Leggendo tra le righe di questo saggio, si ha l’impressione che architetture come quelle di ELASTICOSPA, al di là delle specifiche scelte linguistiche, costringano a mettere in discussione l’idea di “modernità”. Termini come “parametric design”, “3d printing”, “BIM”, “augmented reality”, “high-tech”, ecc., sono infatti assenti dall’immaginario di Stefano Pujatti, i cui temi preferiti – la materia, lo spazio, il paesaggio, la tecnologia, la costruzione, ecc. – sono invece ben radicati nella cultura architettonica del Novecento (e dunque di Zevi). Di fronte a tale evidenza è vietato rimanere neutrali: o si stabilisce che è moderno solo chi include le parole del momento nel proprio operare, o si accetta che la (nostra) modernità è composta da una stratificazione eterogenea di discorsi coesistenti, non necessariamente intersecantisi, e altrettanto validi se ben strutturati. Ma attenzione perché la seconda opzione, tipica di una critica liberale, è la sola in grado di contenere e valorizzare, senza cadere in contraddizioni interne, poetiche così diverse come quelle di autori quali Servino, Baglivo ed ELASTICOSPA (cui Mosco ha dedicato le sue recenti incursioni su questa rivista). A voi la scelta.

Davide Tommaso Ferrando

Tony’s House © Pino Dell’Aquila

ELASTICOSPA sono gli ultimi degli zeviani. Ciò può essere considerato motivo di orgoglio per loro; per noi, invece, è un orgoglio relativo, melanconico in  quanto oggi architetti e critici che si rifanno alle teorie di Zevi dimostrano la pochezza e la grossolanità di idee di cui rimangono soltanto le lise confezioni. ELASTICOSPA sono zeviani in quanto seguono i dettami di Zevi. Nell’ordine: la ricerca di un linguaggio basato sulla dissonanza, sulla tridimensionalità antiprospettica, sul coinvolgimento strutturale nell’immagine dell’edificio, sulla “temporalizzazione” dello spazio, sulla “reintegrazione edificio/città/territorio” e per ultimo (elemento essenziale della poetica di ELASTICOSPA) sulla integrazione tra il linguaggio parlato, spontaneo e dal basso e quello alto[1].

Yuppie Ranch House © Betta Crovato

Tendenzialmente le migliori opere di ELASTICOSPA sono quelle, come voleva Zevi, in cui da un nucleo, o da più nuclei spaziali interni, si dipartono delle linee forza che definiscono il carattere dell’oggetto e ciò lasciando anche delle parti non particolarmente aggettivate, così da evidenziare proprio quelle linee forza che strutturano, sebbene in maniera empirica, il progetto. No al volume inerte quindi, ma la volontà di dar forma ad una vivacità narrativa, ritmata, fatta di accelerazioni e decelerazioni, di compressioni e decompressioni, di dar vita a quello che lo stesso Zevi chiamava un “periodare flessibile” capace di “spalancare la figura verso l’ambiente”.

Yuppie Ranch House © Betta Crovato

Boccioni, citato proprio da Zevi, scriveva che il suo intento era quello di “solidificare l’impressione” attraverso una “accidentalità definita” e proprio questa potrebbe essere l’epigrafe da apporre ai progetti di ELASTICOSPA[2]. Nel rutilante e catturante scrivere di Zevi si è attratti dall’appello nei confronti della libertà espressiva, nei confronti della fiducia che il singolo, l’autore, sia capace di tenere insieme questi precetti. Leggendo Zevi, possibilmente emendandolo dalla deriva reazionaria (ha sempre bisogno di un avversario verso cui reagire) vengono allora in mente le pagine dei trascendentalisti statunitensi: quelle di Whitman, di Thoreau e l’empirsimo radicale di Pierce, specialmente una sua famosa frase: “le idee non esistono se non per i risultati che esse producono” che potrebbe essere un’altra epigrafe non solo per le opere ma anche per lo stile comportamentale di ELASTICOSPA.

Atelier Fleuriste © Beppe Giardino

Ma come accade spesso al liberalismo radicale il pensiero di Zevi ha subito una torsione al negativo di cui il primo artefice è stato il suo stesso autore. La libertà vitalista se estremizzata e se più che altro concessa a coloro i quali non hanno, o non vogliono, avere i mezzi per gestirla diventa gratuita scompostezza, grossolana esibizione ed allora scivola in un fraseggiare solo per slogan, per frasi principali che non sanno reggere nessuna secondaria. Diventa quell’edilizia urlata, povera di mezzi ed idee, casual, anzi becera, che conosciamo bene in quanto attanaglia le periferie delle nostre città e alle volte, nei casi dissennati, anche i nostri centri storici. Tradotto in altri termini: ben pochi possono essere zeviani.

Atelier Fleuriste © Beppe Giardino

ELASTICOSPA lo possono essere in quanto hanno introiettato nel loro lavoro gli anticorpi per evitare le derive zeviane. Il primo degli anticorpi è la coscienza che non basta un impianto generale dell’oggetto architettonico libero, anti-scatolare ed espressionista per dar vita ad una buona architettura. La libertà di configurazione generale infatti va bilanciata con una attenzione al dettaglio, alla scala minuta; in definitiva la narratività del generale deve trovare un adeguato rispecchiamento in quella del particolare ed è proprio in questo rispecchiamento che si gioca la qualità dell’architettura organica.

Top Gun © Betta Crovato

Prendiamo ad esempio l’edificio di ELASTICOSPA di Piancavallo e proviamo ad immaginarlo depurato dalla narratività coesa dei dettagli, dal dialogo serrato tra i plinti in cls e le strutture in elevazioni in legno; proviamo a spostarne l’attacco, ad ingrossare o diminuire le sezioni, oppure proviamo ad alterare il dialogo tra il rivestimento di facciata in ardesia e gli innesti triangolari in legno sapientemente aggettivati dal pattern della balaustra a zigzag un po’ anni ‘50. Proviamo ad allargare o a diminuire il passo delle scandole a tutta altezza che corrono sull’altra facciata. L’effetto di queste alterazioni, anche se fossero minime, sarebbe disastroso: quell’equilibrio tra libertà formale e controllo della stessa salterebbe. Possiamo provare a fare lo stesso esercizio di alterazione con le opere di altri empirici liberali come Mollino, Moretti e Gabetti e Isola: pochi cambiamenti e il risultato cambia completamente, in peggio.

Slow Horse © Jacopo Riccesi

Il punto è essenziale. Come sappiamo gran parte di quella che Zevi chiamava con disprezzo “architettura accademica” si fonda su due precetti che risalgono a Leon Battista Alberti: quello della finitio, per cui la forma deve essere conclusa, e quello del nihil addi, secondo il quale nulla sarebbe potuto essere aggiunto ad un’opera di qualità senza turbarne l’effetto generale e conseguentemente la qualità. Ciò è evidente nella architettura prescrittiva degli ordini pre-moderni o per il classicismo in generale, ma lo è anche per l’architettura empirica e narrativa o organica che dir si voglia, anche se questa non ha regole prescrittive scritte ma per così dire se le guadagna volta per volta sul campo. Viene in mente allora Frank Lloyd Wright: nelle migliori opere (personalmente preferisco del suo regesto le Usonian Houses) è rispettata una finitio, come anche è rispettato il nihil addi. ELASTICOSPA, sebbene in maniera empirica ed aperta, rispetta a modo suo, questi precetti, perché sa che sempre e comunque l’architettura si basa sul dialogo tra invenzione e convenzione e che uno dei due termini, anche se ridotto in minoranza, non potrà mai scomparire: se così fosse infatti non ci troveremo più di fronte ad una architettura sinceramente democratica.

Slow Horse © Jacopo Riccesi

Un’altra caratteristica di rilievo dello zevianesimo illuminato di ELASTICOSPA è data dalla capacità di saper nobilitare i linguaggi spontanei. Nel libro appena uscito sul lavoro di ELASTICOSPA in un mio contributo mettevo in luce questa caratteristica che a ben vedere è stata uno degli elementi caratterizzanti l’architettura italiana da quando Pagano, alla fine degli anni 30, stanco se non disgustato della tronfia retorica del regime, si rifugia nell’architettura vernacolare e si mette ad ascoltare gli etimi spontanei, inaugurando di fatto la stagione neorealista. Una caratterizzazione ben precisa quindi quella della nobilitazione dei linguaggi spontanei che ha avuto una fortuna critica altalenante in quanto non si è mai consolidata in una vertenza dai contorni definiti, evaporando così allorquando è stata messa a reagire frontalmente con la cultura “alta”.

Slow Horse © ELASTICOSPA

Scrivevo a riguardo nel libro da poco uscito dedicato al lavoro di ELASTICOSPA: “Tecnicamente questo processo (la nobilitazione dei linguaggi spontanei) è assimilabile ad una trasmutazione che può partire dal particolare architettonico o dalla configurazione generale dell’opera. Se si vuole nobilitare dal particolare allora si prende un elemento della costruzione conosciuto, persino banale, e lo si modifica nelle dimensioni e nei trattamenti fino al punto in cui lo stesso diventa, almeno in parte, qualcos’altro. Tipico è il caso in cui una gronda (elemento connotativo del linguaggio vernacolare, come tale odiato dai modernisti) che invece di essere negata, è evidenziata, caso mai aumentandone l’aggetto o esponendo gli elementi di aggancio, così che questa nuova gronda risulta come fosse un’architettura a se stante, in bilico tra vernacolo ed astrazione. Attenzione questo gioco di destrezza di linguaggio funziona solo se, alla fine della trasmutazione, la gronda risulta simile a quella d’origine; funziona se la stessa pur diventando qualcos’altro, non solo non nega le sue umili origini vernacolari, anzi guarda alle stesse con ironia e oserei dire, affetto. Diverso è il caso della nobilitazione degli impianti generali. Sebbene anche in questo caso la nobilitazione è data dalla qualità espressiva del segno, è buona norma quando si ragiona nel generale, dissimularla in maniera tale che appaia ad una lettura come un motivo lontano, per certi versi celato, pena lo scivolare in un’atmosfera artefatta ed affettata, o peggio nel kitsch. Nobilitare i linguaggi spontanei è quindi un’operazione di pesi e misure dove non esistono regole o prescrizioni e dove ci si può affidare solo all’intuito del buon gusto”[3].

Country House © Betta Crovato

Anche in questo caso quindi si tratta di una capacità empirica di fissare il limite del proprio operato, in definitiva la propria finitio e il proprio nihil addi. Una ventina di anni fa Ignasi de Solà-Morales[4] in un acuto scritto su “Domus” evidenziava come la migliore architettura degli anni posteriori alla modernità era quella che sapeva lavorare non con il citazionismo e l’iconografia alla carta, ma con l’inquietudine controllata, quasi circospetta, che cercava di tenersi in equilibrio tra il noto e l’ignoto, tra il senso dell’ordine e quello del disordine e lo faceva affidandosi unicamente  alla sensibilità dell’autore, al suo intuito allenato ed educato dalla propria esperienza figurativa e critica. Bruno Zevi aspirava a quella che in un suo editoriale chiamava not quite architecture[5], ma aimè specialmente nel suo ultimo periodo, quello dell’infausto Manifesto di Modena in cui sposava il decostruttivismo, la sua irrequietezza era diventa scompostezza gratuita, compulsione formale, esibizionismo plastico.

Treviso Bifronte © ELASTICOSPA

ELASTICOSPA ha capito ciò che Zevi, per ragioni dettate dalla propaganda del suo stesso pensiero, non aveva compreso: che l’irrequietezza è di per sé un carattere amorfo: né positivo, né negativo. E’ il limite che si pone alla stessa che ne determina infatti la qualità e questo limite è questione di sfumature e le sfumature, o meglio l’arte delle sfumature, è ciò che caratterizza gli autori validi, in tutti i campi.  

Valerio Paolo Mosco

Note:
[1] BRUNO ZEVI, Editoriali di architettura, Einaudi, 1979, p. 265.
[2] ID., Storia e contro storia dell’architettura italiana, Newton and Compton, p. 724.
[3] VALERIO PAOLO MOSCO, Dove si muove ELASTICOSPA+3, in DAVIDE TOMMASO FERRANDO (a cura di), 1301INN ELASTICOSPA+3, LetteraVentidue, 2014, pp. 97-105.
[4] IGNASI DE SOLÀ-MORALES, Differenza e limite in “Domus” n. 736, marzo 1992.
[5] BRUNO ZEVI, Editoriali di architettura, cit., p. 185.

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