massa critica | davide tommaso ferrando
Palabra de Arquitecto: el ámbito digital, ¿un nuevo espacio para la crítica arquitectónica? è il titolo della tavola rotonda tenutasi l’11 dicembre scorso nel Salon de Actos della Biblioteca Nacional de España di Madrid, cui hanno partecipato – con la moderazione di Domenico di Siena – Aurora Adalid, Santiago de Molina, José María Echarte e Anatxu Zabalbeascoa: tutti architetti (tranne la giornalista Zabalbeascoa, autrice di una rubrica dedicata all’architettura contemporanea su “El País”) che affiancano all’esercizio della professione (quelle poche volte in cui ancora si riesce a esercitare, in Spagna) attività di formazione, comunicazione e critica.
L’obiettivo della serata era stimolante: analizzare il modo in cui i media digitali hanno trasformato il campo della comunicazione architettonica, per poi interrogarsi sullo stato attuale della critica di architettura e su come essa possa trarre vantaggio dalle caratteristiche specifiche dei blog. Tanto gli interventi dei relatori, quanto il successivo dibattito, hanno sollevato questioni importanti che però, per motivi di spazio, non mi è possibile elencare in questa sede. Ciononostante, vorrei qui isolare tre problematiche emerse durante la serata madrilena, che forniscono un ottimo contesto introduttivo ai contenuti di questo post.
Prima di tutto, si è creata fin da subito una certa distinzione tra i relatori, in merito alla questione della possibilità di esistenza di una vera e propria critica sul web. Santiago de Molina ha dichiarato fin dall’inizio che «la parola “critica” è troppo pesante per essere usata in un blog». Anatxu Zabalbeascoa, sostanzialmente d’accordo, ha ribadito il noto discorso secondo cui «selezionare è già una critica in sé» (vero, ma tra il non parlare di un problema e il metterlo in evidenza c’è una bella differenza). Mentre Aurora Adalid – non a caso, direi, la più giovane degli invitati – ha sottolineato in controtendenza come la critica non sia «una questione di formato, bensì di intensità dei contenuti» (seppur schierato dalla parte di quest’ultima, non sono d’accordo con nessuno dei tre, e più avanti si capirà il perché).
In secondo luogo, mi ha particolarmente incuriosito il fatto che sia i relatori sia il mediatore abbiano dato per scontato che parlare di critica significhi parlare di critica scritta. Nel suo discorso introduttivo, Domenico di Siena ha dichiarato che durante la serata, per una volta, non sarebbero state proiettate immagini, per concentrarsi esclusivamente sulle parole (come se le immagini non fossero in grado di «prendere posizione», come sostiene Georges Didi-Huberman). Sarà forse per questo motivo che i social networks – oggi un territorio di frontiera per la critica di architettura – sono rimasti sostanzialmente estranei ai ragionamenti svolti durante la tavola rotonda.
Infine, ho trovato particolarmente utile il modo in cui è stato affrontato il problema dell’autorevolezza dei bloggers. In virtù del continuo moltiplicarsi delle fonti di informazione, chi si avventura nel mondo della scrittura critica su web non ha altra scelta, se vuole essere percepito come significativo, che mantenere costantemente alta la qualità dei contenuti pubblicati. Il valore di un punto di vista, infatti, non è più dato dal nome della struttura editoriale di riferimento (digitale o analogica che sia) o dalla quantità di articoli scritti, ma dall’aspettativa di qualità che la somma dei contenuti già pubblicati è in grado di generare nel lettore. In questo senso, chi scrive diciannove testi farlocchi e un capolavoro (sempre che questo sia possibile), ha oggi meno successo di chi ne scrive solo dieci, ma tutti meritevoli di attenzione. Come dire: tu scrivi tranquillo, che tanto i lettori sanno dove trovarti.
Interrogarsi sulle funzioni e sul funzionamento della critica è una pratica saldamente ancorata alla storia della disciplina architettonica: del resto, la messa in crisi di tutto, compresi i propri fondamenti, fa parte del patrimonio genetico della critica stessa. Ciclicamente, ci si chiede cosa possa fare la critica per risolvere i problemi dell’architettura, quali siano i rapporti che legano i critici agli architetti, quanto sia adeguata la critica ai mezzi di comunicazione del suo tempo, ecc. In questo periodo storico, tali domande assumono una rinnovata importanza: non solo in reazione al lungo periodo di intorpidimento critico che ha accompagnato gli esuberanti anni della bolla immobiliare – durante i quali, mettere in discussione le pratiche degli architetti che partecipavano alla grande abbuffata significava automaticamente non prenderne parte – ma anche in virtù dei vertiginosi cambiamenti recentemente avvenuti sia nel campo delle costruzioni sia in quello della comunicazione.
L’esplosione della bolla immobiliare ha infatti proiettato gli architetti in un mercato improvvisamente incancrenito, dove lo spazio per la progettazione – almeno quella intesa in senso tradizionale – è diminuito nella stessa misura in cui, al contrario, è aumentato il tempo per il disegno e la riflessione disciplinare. Il diffondersi a macchia d’olio dei social networks, contemporaneamente, ha messo a disposizione di critici e architetti una serie di nuovi media di facile accesso e grande portata: strumenti che, come ha ben scritto Alexandra Lange su Dezeen pochi giorni fa, sono sprecati se ridotti a ennesima propaggine del proprio ufficio stampa, ma che se usati correttamente, ovvero con curiosità verso il mondo esterno e un po’ di spirito critico, si trasformano in potenti veicoli di conoscenza, dato che hanno la capacità di «far diventare la critica, l’interpretazione, il dialogo e la storia una parte della vita quotidiana».
Di questo se ne sono già accorti una serie di users che da un po’ di tempo – a titolo gratuito – gestiscono i loro profili di Facebook, Twitter, Instagram e Tumblr come dei veri e propri one-man-magazines: sia per condividere i risultati delle proprie ricerche architettoniche, come in Italia fanno da tempo Beniamino Servino e Carmelo Baglivo (sulle cui immagini Bart Lootsma ha recentemente scritto un ottimo articolo), sia per condividere scritti, immagini e video altrui, come nel caso di Stefano Mirti (ma anche su Instagram e Twitter) e Paola Ruotolo. Fuori dai confini culturali nostrani, il fenomeno è ancora più stimolante e variegato, con sharers interessanti come Aguilera Guerrero Arquitectos, Angel Muñiz e Javier Echepare su Facebook, o Fuck Yeah Brutalism, Subtilitas e Archive of Affinities su Tumblr, per citarne soltanto alcuni. Per quanto riguarda invece un medium più consolidato come il blog/webzine, esistono oggi realtà indipendenti tanto interessanti quanto diverse tra loro – come The Funambulist, The Charnel House, btbwarchitecture, dpr-barcelona, n+1 e Failed Architecture, o, in Italia, Archiwatch, GIZMO, Wilfing Architettura, The Booklist e The Ship – che dimostrano come anche il discorso critico – persino nella sua versione post-marxista, come nel caso del blog di Ross Wolfe – possa essere felicemente ospitato dal web.
Un inciso, prima di proseguire con questo post che inaugura il nuovo anno editoriale di OII+: immagino che mi si possa accusare di imprecisione e parzialità nell’aver stilato il precedente elenco. Questa del piagnisteo post-esclusione sta diventando un’abitudine fastidiosamente italiana, come dimostrato ad esempio dalle critiche mosse a recenti post di Luca Molinari, Valerio Paolo Mosco e Giovanni La Varra (tre scritti che, insieme a un quarto di Luigi Manzione, hanno aperto un salubre dialogo a distanza sul tema dello stato attuale della critica d’architettura in Italia, tra l’altro), nonché all’appena pubblicata Storia dell’Architettura Italiana 1985-2015 di Marco Biraghi e Silvia Micheli: tutti accusati di voler stringere alleanze e consolidare nuove enclave di potere per mezzo dei propri scritti faziosi. Ecco, il fatto è che simili lamentele denotano un ritardo siderale rispetto alle regole attuali della comunicazione, cartacea o web che sia.
Viviamo in un multiverso in cui succedono miliardi di cose contemporaneamente e nel quale ognuno di noi, per quanto informato sia, non può che avere una visione tremendamente parziale del tutto, sia in termini di numero di fenomeni conosciuti, sia in termini di strumenti concettuali attraverso i quali i fenomeni stessi sono compresi. L’elenco, in questo senso, è uno degli strumenti più efficaci che abbiamo per ricostruire frammenti temporaneamente stabili della marea di informazioni che ci circonda – a patto che a esso si affianchino altri strumenti critici capaci di affrontare più in profondità i temi selezionati, e a patto di esser sempre consapevoli della parzialità implicita in tale sistema di ricerca. Un elenco, per definizione, non è nè definitivo nè onnicomprensivo. Se dunque un elenco non ci piace, invece di pretendere – come pare che qualcuno abbia fatto – che il suo autore faccia marcia indietro e ne proponga uno più completo, dovremmo prenderci noi la responsabilità (dato che i mezzi ormai li abbiamo) di stilarne uno alternativo (come ha da poco fatto Emmanuele Pilia in risposta a un articolo di Luca Molinari), così da offrire un punto di vista alternativo. I benefici di questo sistema dialettico, soprattutto se confrontato con i piagnistei di cui sopra, sono evidenti: si raddoppia il numero di autori segnalati, si arricchisce la conoscenza di tutti. Starà poi alla curiosità e all’immaginario dei singoli lettori definire quali dei nomi citati sono per loro interessanti e quali no, e dunque scegliere chi seguire autonomamente e chi invece perdere di vista.
Non mi si prenda, però, per un ingenuo: le evidenze portate e i ragionamenti fatti fin qui non mi inducono a pensare che la critica d’architettura, in generale, goda di ottima salute. Al contrario, se dal 2011 ho deciso di dedicare questa webzine alla costruzione di una critica indipendente, è proprio perché ho avvertito la mancanza di un discorso critico capace di iniettare un’energia diversa all’interno della nostra disciplina: qualcosa che si distanziasse tanto dal silenzio-assenso cui molti si sono piegati sotto le pressioni delle economie editoriali (il critico come manager), quanto dalle invettive nel vuoto di chi pensa che l’architettura e la critica siano state demolite insieme alla prima palazzina del Pruitt-Igoe (il critico come criticone); ma anche qualcosa che utilizzasse in maniera sperimentale gli strumenti del web, non solo per comunicare in maniera efficace con le nuove generazioni di architetti, ma anche per inventare nuovi modi di fare critica – e, di conseguenza, un nuovo modello di critico di architettura.
Il primo esperimento l’ho fatto nel marzo del 2011, creando su questo sito la rubrica [omissis] insieme a Giovanni Benedetti, cui è seguita, un anno dopo, ATLAS. Entrambi i progetti si basano sull’idea di sfruttare positivamente, ripiegandole su se stesse, due caratteristiche notoriamente problematiche della comunicazione via web: il rapido decadimento della soglia di attenzione (nel caso di [omissis]), che richiede scritti brevi ipoteticamente leggibili in meno di tre minuti; e il dominio dell’immagine sulla parola scritta (nel caso di ATLAS), che spalanca le porte di un’epistemologia basata sulle associazioni iconografiche (sull’onda lunga degli atlanti di Aby Warburg e delle doppie diapositive di Colin Rowe) ancora poco sfruttata nella nostra disciplina. Sempre nel 2012 ho inaugurato il Tumblr realismoutopico, da oggi integrato nella sidebar di questa rivista, nel quale pubblico progetti realizzati capaci di risolvere problemi architettonici in maniera tanto semplice quanto inattesa. Nel 2013, infine, ho cominciato a fare esperimenti più “personali” di critica per immagini (a me piace chiamarla “critica istantanea”), a partire dalla serie di fotografie Objets à réaction prosaïque, tutti postati sul mio profilo di Facebook, che da un po’ di tempo gestisco anch’io come una specie di progetto editoriale. L’obiettivo principale di tutte queste iniziative era, ed è ancora, rendere la critica di architettura una pratica seria e leggera allo stesso tempo, per così reintrodurla in maniera “non violenta” all’interno della prassi progettuale.
Sono infatti convinto che i critici, per usare una metafora tennistica, non dovrebbero giocare né insieme né contro gli architetti, ma fare loro da sparring partners. Fino a prova contraria, infatti, compito ultimo della critica è assicurarsi che gli architetti costruiscano edifici e città migliori (se no, scusate, a cosa serve la critica? A fare le classifiche?). Si suppone dunque che i critici, in virtù delle competenze ottenute con lo studio della storia e della teoria, siano chiamati a svolgere un compito utile all’architettura e agli architetti: sia attraverso la critica specifica ex-post, ovvero con il giudizio sull’opera realizzata; sia attraverso la critica generica ex-ante, ovvero arricchendo (con pubblicazioni, mostre, conferenze etc.) l’immaginario, i riferimenti e lo spirito critico degli architetti. Che poi possa esistere anche una critica specifica ex-ante, ovvero uno sparring partner che in fase progettuale ti obbliga a giocare sul rovescio perché è il tuo colpo più debole, credo dipenda principalmente dalla percezione che gli architetti hanno dei critici: quanto più oggettivi e costruttivi sono i pareri dei secondi, tanto più interessante e utile dovrebbe essere, per i primi, ascoltarli. È per questo motivo che non condivido l’affermazione di Valerio Paolo Mosco, secondo il quale il critico è, per definizione, “un misantropo”. Al contrario, mi piace pensare a una figura di critico talmente amico degli architetti da non aver problemi a esprimere giudizi negativi sui loro lavori – che è quello che sto cercando di fare da un po’ di tempo, anche attraverso le attività della nostra associazione, con i miei amici torinesi.
Per relazionarsi in maniera fruttifera con gli architetti, però, è necessario parlare la loro lingua e adottare i loro canali di comunicazione. Mi sembra evidente, in questo senso, che la distanza che separa in molti casi progettazione e critica, dipenda non solo dallo stato di crisi in cui si trova quest’ultima (una crisi prodotta dal lungo periodo di relativismo postmoderno dal quale, forse, la crisi economica ci sta facendo risvegliare), ma anche dal ritardo che essa ha accumulato nei confronti delle trasformazioni cui i mezzi di comunicazione sono stati sottoposti negli ultimi anni. Mentre sempre più architetti postano video e foto su Instagram, condividono immagini su Pinterest, Facebook e Tumblr, riassumono libri e commentano conferenze su Twitter, troppi critici sono ancora convinti che l’unico modo per far critica sia scrivere testi lunghi e noiosi come questo – testi che, normalmente, vengono letti prevalentemente da professori, critici, storici e qualche studente, rimanendo così ai margini della produzione architettonica vera e propria. In tal senso, ho l’impressione che in questo preciso momento storico, l’errore più grave che si può imputare a un critico è quello di non essere interessato a diffondere le proprie idee al di fuori di circuiti esclusivamente letterari e accademici, rinchiudendo il proprio discorso in un’aula di autonomia (la critica per la critica) che non sposta di una virgola la partita dell’architettura costruita.
Non è però mia intenzione affermare che la critica tradizionale (quella “alla Tafuri”, per intenderci) sia ormai superata, tutt’altro: dico che oggi, pena l’esclusione dai veri luoghi della comunicazione, essa debba essere arricchita dall’uso sperimentale degli strumenti messi a disposizione dal web e dai social networks, le cui caratteristiche specifiche – rapidità di lettura, importanza dell’immagine, facilità di associazione, informalità, viralità ecc. – non permettono un approccio “classico” al discorso critico, ma aprono un ventaglio di possibilità comunicative ancora tutte da esplorare. In sintesi: diverso il formato, diversi i contenuti – o, come scriveva Marshall Mc Luhan, the medium is the message.
È per tutti questi motivi che, a partire da quest’anno, vorrei dedicare una parte ancora più importante di OII+ all’esplorazione di sistemi alternativi di comunicazione generati dall’incontro sperimentale di digital media e pensiero critico, con l’obiettivo di mettere a disposizione dei progettisti una serie di strumenti concettuali maggiormente radicati nel periodo storico in cui viviamo. Uno sforzo che non intendo compiere da solo, ma in compagnia di una redazione virtuale (per il momento piccola, ma che spero crescerà) di amici architetti, cui ho chiesto di aiutarmi a rendere ancora più ricca l’offerta culturale di questa rivista nei mesi a venire.
Davide Tommaso Ferrando
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