massa critica | davide tommaso ferrando
Inaugurata da un libro pubblicato con Skira nel 2012, la ricerca di Valerio Paolo Mosco sulla nudità in architettura si è recentemente spostata sul web, con una rubrica ospitata da Artribune all’interno della quale una serie di architetti sono chiamati dal critico romano a offrire il loro personale punto di vista sul concetto di nudità.
Fosse ancora vivo, uno da invitare ad “Architettura nuda” sarebbe Marshall Berman, che alla nudità ha dedicato alcune pagine memorabili del suo Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria. Per Berman, «la dialettica della nudità viene definita all’inizio dell’era moderna, nel Re Lear di Shakespeare», secondo il quale «la nuda, terribile realtà dell’uomo «genuino» è il punto da cui si deve partire per giungere ad uno stato di benessere, l’unico terreno su cui può sorgere una vera comunità». Circa due secoli dopo, Rousseau denunciava «l’uniforme ed ingannevole velo di buone maniere» che ricopriva la società settecentesca, affermando che «il vero uomo è un atleta che ama lottare completamente nudo; egli disprezza tutti quei vili ornamenti che gli impediscono l’uso dei suoi poteri», e che dunque l’uomo nudo non solo è più libero e più felice di tutti gli altri, ma anche migliore. Per Burke, al contrario, la nudità era «un disastro irreparabile, uno sprofondamento nel nulla da cui niente e nessuno può risollevarsi»: l’unica speranza degli uomini moderni, secondo il filosofo inglese, risiedeva dunque «nelle menzogne e nella capacità di approntare mitici drappeggi, abbastanza pesanti da soffocare la terribile consapevolezza di chi sono». Ma è con Marx, scrive Berman, che tale dialettica raggiunge il suo apice, ovvero con la speranza che una volta «costretti a guardare con occhio disincantato… le vere condizioni delle proprie vite e i rapporti con i propri simili», gli uomini «genuini» della classe lavoratrice si sarebbero uniti «per vincere il freddo che li trafigge tutti uno per uno».
A questo breve elenco di riferimenti mi verrebbe da aggiungere l’elogio del trucco contenuto ne Il pittore della vita moderna di Baudelaire (e chissà quanti altri), ma la sostanza del discorso non cambia: persino su un termine apparentemente così semplice, come quello di “nudità”, è difficile stabilire un accordo epistemologico unanime. Non solo: la storia dimostra come attorno a tale concetto si siano polarizzati, durante tutto il Novecento, due modi di intendere l’architettura profondamente antitetici, e grossolanamente riconducibili al calvinista aforisma miesiano less is more e al liberatorio less is a bore di Robert Venturi. Quello della nudità, in questo senso, è un tema talmente radicato nella disciplina architettonica da essere spesso responsabile del modo in cui essa è pensata.
Precisa Mosco, a tal proposito, che «la nudità in architettura di fatto non esiste in se per sé, nel senso che un qualunque edificio per essere abitabile ha bisogno di un rivestimento; solo infatti gli edifici in costruzione e in rovina possono essere considerati nudi. La nudità quindi, in architettura, e forse anche in altri saperi è, per dirla con Weber, un tipo ideale, un riferimento alle volte persino archetipico, a cui si tende ma che in realtà non esiste nella sua purezza ideale se non nelle condizioni limite. Eppure possiamo considerare nude anche nel linguaggio comune, le opere in cui riscontriamo una tendenza alla riduzione, all’essenzialità, alla scabrezza e all’anonimato. Più in generale quelle opere che per un verso o per un altro tendono verso un ineffabile “grado zero”. A mio avviso le opere più interessanti di oggi, sebbene con modalità eterogenee, tendono a ciò».
Non pensiate, però, che “Architettura nuda” sia una nostalgica raccolta di intransigenti condanne all’ornamento. Al contrario: la molteplicità dei punti di vista in essa contenuti è tale da produrre continue risignificazioni del termine in esame, e dunque da portarne alla luce risvolti semantici inattesi. Ed è proprio per questo motivo che la rubrica di Mosco mi pare meritevole di attenzione: perché l’eterogenea stratificazione di letture che essa offre, rende il concetto di “nudità” più riccamente comprensibile e (dunque) utilizzabile.
Il post di presentazione del progetto editoriale si trova qui. L’archivio dei post si trova qui.
Davide Tommaso Ferrando
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