Che scatole…

massa critica | pietro valle

Non fatevi ingannare dall’incipit di questo scritto (“Ad un certo punto nell’architettura degli anni Novanta del secolo scorso […] cominciano ad emergere edifici dalla forma cubica, sommaria…scatole insomma”): non si tratta dell’ennesimo sfogo contro la superficialità dell’architettura contemporanea. Al contrario: con una disponibilità critica simile a quella dimostrata da Venturi & Scott Brown nei confronti di Las Vegas (seppur con meno accondiscendenza rispetto all’oggetto di studio), in questo testo Pietro Valle si tuffa nella “profondità della banalità” di un modo di costruire che, negli ultimi decenni, si è diffuso su scala planetaria, sviscerando i presupposti culturali e portando a galla le più intime contraddizioni di quello che potremmo definire l’International Style del momento. Ciò che emerge da questo bel saggio è che, ribaltando il rapporto che lega storicamente rappresentazione e costruzione (un rapporto basato sul passaggio dalle due dimensioni della prima alle tre dimensioni della seconda), le scatole architettoniche del XXI secolo tendono a subordinare la loro realtà spaziale alla produzione di renderings e fotografie, in un processo di “schiacciamento” della complessità progettuale i cui effetti sono paragonabili a quelli del noto ritratto di Dorian Gray. Mentre la produzione architettonica continua a mostrare una certa vitalità, infatti, la semplificazione cui essa è sottoposta la corrode, invisibilmente, dal di dentro, riducendone gli esiti meno convincenti – consciamente o inconsciamente sottomessi al mercato delle immagini architettoniche – a pura messinscena.

Davide Tommaso Ferrando

Ad un certo punto nell’architettura degli anni Novanta del secolo scorso, con sempre maggiore ricorrenza, cominciano ad emergere edifici dalla forma cubica, sommaria… scatole insomma. Emergono prima nelle pubblicazioni, non le avevamo ancora viste in realtà, e poi divengono una sorta di standard costruttivo. Qualcuno parla di rigore formale dissimulato da banalità. Anche la banalità dei contenitori funzionali evocati da questi edifici acquisisce, tuttavia, una profondità, parla di una posizione non interamente formale, non autonoma, non esclusiva, si riferisce a pratiche artistiche come il Minimal e l’Arte Povera che inseguono la specificità delle situazioni pur con forme primarie.

Herzog & De Meuron | Schaulager| Basilea | 2003

Le scatole, la loro astrazione o, meglio la loro graficità, parlano anche di un riferimento a un Modernismo visto non come conquista dello spazio (e rottura dell’involucro chiuso) ma come liberazione dell’oggetto autonomo. Quest’ultimo assume le sembianze di un condensatore iconico, un volume astratto che non segue leggi tettoniche ma solo formalità compositive di aperture e scomposizioni, un gigantesco soprammobile/caleidoscopio che estetizza le immagini associate al moderno: quelle di un bianco involucro tagliato ortogonalmente dalla luce, una lampada, un faro. Niente più fuga di piani nello spazio infinito, niente più composizioni matematiche o geometriche: la casa in queste riduzioni figurative è comunque involucro e allora quell’involucro diviene l’archetipo che tiene insieme le immagini, i rendering che da esso si possono liberare.

Boyd Cody | Casa ad Alma Lane | Dublino | 2004

C’è una perversa alleanza tra disponibilità iconica e pragmatismo costruttivo in questo. Le scatole sono semplici da erigere, il moderno ha liberato le aperture dalla legge della gravità ma l’immagine oggigiorno si raddensa nel solo involucro esterno. Si finisce così per riconfermare quel volume chiuso che il moderno pensava di avere aperto alla luce e allo spazio. Nell’indifferenza della comunicazione recente a questi valori, si riafferma il contenitore come unico elemento comunicativo dell’architettura. L’ineffabile, lo spazio infinito, l’assoluto tettonico miesiano scompaiono ed emergono pure esteriorità che per definire degli effetti visivi devono avere superfici stratificate. Questo porta a costruire cubetti decorati da pattern di finiture/aperture che li rendono alternativamente eleganti, sexy, seducenti. Sono possibili svariati giochi texturali sull’involucro, che innescano un incessante feticismo, un’ossessiva reiterazione del rivestimento quasi esso fosse un vestito senza forma definito solo dal motivo stampato sul tessuto.

Baumschlager Eberle | Nordwesthaus | Fussbach | 2008

I maestri di tali architetture offrono prove che variano dall’irrequietezza grafica di Herzog & De Meuron (che passano in pochi anni dal minimalismo a un decorativismo supergraphics che porta i multipli di Warhol sulle facciate) allo schematismo di Baumschlager & Eberle, maestri nell’ornare le scatole più banali con fitti intrichi di materiali naturali. Lo spazio scompare, la distribuzione e le relazioni tra gli ambienti non vengono più considerate, la figura che abita tali case non esiste, è un manichino in uno showroom, un soprammobile/scrigno ipertrofico.

Herzog & De Meuron | Espacio de las Artes | Tenerife | 2008

Inutile indulgere nel moralismo di una facile denuncia della pochezza di un’architettura che si consuma tutta nell’appeal della singola vista. È molto più interessante indagare la disponibilità e la trasversalità di un simile modo di progettare/vedere l’architettura. Essa si lega a una sorta di costanza delle immagini che sembrano trovare comuni denominatori figurativi molto più accessibili di segrete leggi astratte o archetipi tipologici che stanno dietro le composizioni. Si tratta qui dell’immediatezza di riferimenti da cogliere a prima vista: l’idea di architettura condensata in un involucro semplice e circoscrivibile (si deve vederlo tutto per intero in una volta), l’idea di moderno/astratto esplicitato nelle sue conseguenze (l’ortogonalità, semplice dell’insieme ma capace di contenere gli arabeschi dei pattern in una gerarchia frattale che aiuta sempre a saltare da una scala all’altra senza perdersi), la disponibilità di questi elementi semplici a costruire serie, varianti, librerie di esempi, e di funzionare quindi come un dizionario grafico di opzioni, proprio come nelle librerie dei programmi computer. L’analogia tra la disponibilità domestica di immagini presenti sul PC (che sono opzioni preconfezionate da altri) e la facilità di lettura del reale esterno diviene fondamentale.

Stefano Boeri | Casa del Mare | La Maddalena | 2009

In tutto questo risiede la vivacità di queste immagini architettoniche a rimanere attive (warburghianamente come figure capaci di attraversare più significati in più tempi) in molteplici contesti senza diventare archetipi. Si può parlare di questo fenomeno come una diagrammizzazione dell’architettura? Sì, ma solo in parte: il diagramma è schema esplicativo, sintesi grafica ma anche promessa di un in più che si trovi poi nella realtà fisica. Nei cubetti decorati dell’architettura anni Novanta e anni Zero, c’è invece la promessa della disponibilità di ottenere immagini facili realizzabili immediatamente, con pochi mezzi, la quale assume valore culturale, promessa, aspettativa e compimento qui e ora, superando la divisione tra schema e realtà. Rappresentazione e realizzazione materiale collassano l’uno sull’altra, si riducono alla stessa cosa ma non è la schematicità che ha vinto bensì l’immediatezza, una forza che diviene possibilità traslatoria di trasferirsi (attraverso i media) da un involucro costruito all’altro e quindi di sentire tutte queste architetture come partecipi di un universo di immagini realizzate che vengono imposte alla banalità del reale informe, poche condensazioni in cui l’aspettativa coincide con la fisicità, e dopo averne consumata una, la si abbandona (senza rimpianti) per passare ad un altra.

Aires Mateus | Casa per anziani | Alcacer do Sal | 2010

Non giudichiamo questo uno scollamento tra immagine e materiali, tra processo è prodotto, bensì come una sovrapposizione dei due termini di tali opposizioni che ne elimina la differenza. Se vi è una caratteristica che accomuna diversi edifici contemporanei è proprio quella dell’annullamento della distanza/traduzione tra codici diversi, distanza in passato usata dagli architetti per indagini, astrazioni, delimitazioni di leggi compositive, insomma per la creazione di dimensioni multiple del progetto che oggi non interessano più. La cosa più interessante di questo fenomeno è, tuttavia, la ricerca di banalità/semplicità che emerge da queste architetture: sono seducenti ma non eccessivamente, propongono un modulato equilibrio tra minimalismo e naturalità dei materiali, tra individualismo e immagine condivisa, quasi che la loro anima si possa involare da una casa e atterrare in quella prossima. “Della vaporizzazione e della celebrazione dell’io. Qui sta il problema”, diceva Baudelaire nei Diari Intimi. L’individualità si disperde mentre si afferma: questo è il segreto incontro degli opposti che cerca di tenere insieme anonimato della serie e protagonismo del momento come antidoto alla spersonalizzazione.

Jakob+MacFarlane | Le Cube Orange | Lione | 2011

Queste architetture, luci del varietà che si accendono per un attimo per poi spegnersi, rimangono nella ritenzione dell’immagine anche dopo che lo show è terminato. Se Aby Warburg fosse vivo, forse sarebbe affascinato da quest’ultimo confine della permanenza della memoria nell’era dell’immemore, soprattutto se applicato a un campo come quello dell’architettura che, per quanto iconico, deve rispondere comunque a criteri di permanenza materiale e rispondenza degli spazi agli usi. Tuttavia questi ultimi due valori sono spesso presi come dati di fatto e l’indagine si concentra sulle forme (figurative) come se esse fossero un attributo separato (e separabile) dal resto.

Sean Godsell | RMIT Design Hub | Melbourne | 2012

Perché oggigiorno dovremmo avere dei critici di architettura che capiscono le diverse dimensioni che un edifico racchiude? Non sono forse meglio degli efficaci apologeti della dimensione unica, capace di riscriverla in diverse e successive apparizioni? In casi di reiterazione come quello degli edifici scatolari, la funzione della critica non è quella di andare a scavare significati reconditi ma di spiegare la vitalità della superficialità, la sua capacità unica di trattenere valori in un estetica usa e getta. L’immagine è sempreverde, l’involucro edilizio costruibile con standard di mercato permane e ringrazia la disponibilità figurativa degli architetti a proporre sempre nuove icone con lo stesso sistema industrializzato.

Pietro Valle

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