[omissis] | davide tommaso ferrando
La ricerca dell’immagine architettonica è diventato il tema più diffuso del design contemporaneo.
[Nei primi anni 2000] uno sconosciuto organismo denominato East of England Development Agency lanciò quella che, con uno scadimento di tono quasi comico, venne definita una competizione internazionale per selezionare un “progetto visionario per un edificio monumentale, o una serie di edifici monumentali”. L’agenzia sosteneva di cercare “un’immagine capace di promuovere il senso di identità dell’intera regione”, come parte della propria strategia per fare dell’Inghilterra orientale “una regione di idee”, il che dà la misura di quanto fosse ormai diffusa la mania dell’esibizionismo architettonico. […]
Le competizioni di questo tipo sono ormai onnipresenti, e conducono quasi inevitabilmente a un’architettura adatta a fare da sfondo alle pubblicità delle automobili, o alle palle di vetro con la neve e la Torre Eiffel usate come fermacarte. La ricerca dell’immagine architettonica è diventato il tema più diffuso del design contemporaneo. Ma se questa immagine deve emergere da una processione infinita di aree industriali in rovina, zone rurali in abbandono o estensioni di terreno da sviluppare, tutte ugualmente “toccate” dalla sorte e decise a dare di sé l’immagine che guiderà il mondo fino a loro, bisognerà produrre qualcosa capace di catturare veramente l’attenzione. Bilbao può scioccare guadagnarsi così uno spazio nei titoli di testa, ma ripetere il giochetto conduce a un’architettura dai rendimenti decrescenti, per cui ogni nuovo e sensazionale edificio deve eclissare il precedente. Conduce a una specie di iperinflazione, un equivalente architettonico di ciò che accadde alla valuta della repubblica di Weimar.
Adesso tutti puntano all’immagine. Tutti vogliono un architetto che faccia ciò che il Guggenheim di Gehry ha fatto per Bilbao e l’Opera House di Jørn Utzon per Sydney. Quando a Los Angeles venne finalmente inaugurata la Walt Disney Hall, la maggior parte dei discorsi di apertura si concentrò sul contributo che la nuova sala da concerto avrebbe potuto dare all’immagine della città, e assai meno sull’acustica.
Questo non è certo il modo più infallibile per assicurarsi un’architettura di discrezione e tatto, e magari anche di qualità. Gli effetti di una simile costruzione dell’immagine sono dannosi tanto per gli architetti quanto per le città che commissionano loro gli incarichi. Non si era mai verificato che a progettare un tale eccesso di visibilità architettonica fosse chiamato un numero così ristretto di persone. […]
Il guaio è che, considerata la stranezza di tanta architettura contemporanea, come faranno i clienti a dire che il loro particolare scontro ferroviario, o meteorite o sigaro volante è il monumento-simbolo che stanno cercando, e non quel mucchio di spazzatura di cui hanno un mezzo sospetto potrebbe trattarsi?
La risposta è che non lo possono fare. E dunque non resta che affidarsi a quella lista di trenta nomi comprendente gli architetti che “l’hanno già fatto”, gli unici autorizzati a essere “strani”. Commissionate l’incarico a uno di loro e state sicuri che nessuno vi riderà appresso.
DEYAN SUDJIC, Architettura e potere. Come i ricchi e i potenti hanno dato forma al mondo, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 308-310.
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Architects become more and more engineers of images and fantasies.
Compared with the financial world, architecture is always extremely slow. Construction takes so much time that bull-market dream projects can easily turn into nightmares in the subsequent bear market. The turnover rate of architectural images is now exceptionally high, however, thanks to globalization and the new media.
The (transient) flashing images seldom show a project in its entirety, from concept to detail. This flash architecture is to construction what high-frequency trading is to the transactions of a jobber sitting in a stock exchange with a telephone clamped to either ear. They comprise their own reality. In flash architecture the creativity, time and effort that have been poured into it are compressed into a few images that briefly reverberate on all the international websites only to make way for the images of the next project, which then enjoys a few hours “at the top of the list”.
The visual culture that has dominated architectural culture since postmodernism is thereby accellerated and architects, willingly or not, become les and less structural engineers and more and more engineers of images and fantasies, in other words what in the world of Disney are known as “imagineers”.
On the internet, the ever-burgeoning volume of these architectural images constitutes a visual plastic soup that permanently pollutes the digital information oceans.
HANS IBELINGS, POWERHOUSE COMPANY, SHIFTS. Architecture after the 20th Century, The Architecture Observer, Amsterdam/Montreal 2012, p. 47.
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Cosa distingue l’architettura dalla progettazione di cartelloni pubblicitari?
Sono sempre stato affascinato dalla fase di costruzione di due edifici che furono eretti contemporaneamente a Manhattan l’uno di fianco all’altro lungo la Madison Avenue nei primi anni Cinquanta. Questi due grattacieli, uno progettato per la IBM e l’altro per la AT&T, sono pressoché identici per quanto riguarda la struttura in acciaio, la funzione e la disposizione degli uffici. […] L’edificio IBM è rivestito da una facciata levigata e lucida di marmo e vetro, con dettagli astratti e minimalisti. L’edificio AT&T, al contrario, mostra un trattamento della facciata leggermente articolato, con lastre di granito rosa modellate in modo da ricordare la lavorazione della pietra romana e gotica. L’edificio IBM ha un tetto piatto, mentre l’altro presenta un frontone. Sebbene i due edifici siano quasi identici per quanto riguarda il contenuto, le dimensioni e l’uso, fino a poco tempo fa l’edificio IBM era considerato il simbolo di un’epoca modernista ormai superata mentre quello AT&T veniva visto come la grandiosa affermazione del nuovo postmodernismo storicistico che divenne lo stile costituito dominante degli anni Ottanta. […]
“Il trionfo del superficiale”, come lo chiama Stuart Ewen nel suo recente libro sulle politiche dello stile All Consuming Images, non costituisce un fenomeno inedito, ma gli architetti devono ancora comprendere le conseguenze di questa separazione tra struttura e superficie. Fino al XIX secolo l’architettura faceva uso di muri portanti che sostenevano l’intero edificio, e nonostante fosse comune applicare decorazioni di vari stili a queste superfici, i muri svolgevano una funzione strutturale fondamentale […]. Già negli anni Trenta del XIX secolo il collegamento tra immagine, struttura e metodo di costruzione era svanito e i nuovi metodi di costruzione utilizzavano una maglia strutturale interna che sosteneva l’edificio. Queste nuove tecniche di costruzione […] comportarono la fine del ruolo strutturale dei muri, che divennero sempre più ornamentali. Una molteplicità di stili divenne possibile […].
Con l’avvento di queste nuove superfici prive di struttura i ruoli dell’ingegnere e dell’architetto divennero via via più separati: l’ingegnere si occupava della struttura, l’architetto della superficie. L’architettura stava diventando quindi una questione di apparenze: la pelle poteva essere romanica, barocca, vittoriana, “vernacolare” e così via. Questa evoluzione, che portava verso l’intercambiabilità delle superfici, si accompagnò a nuove tecniche di rappresentazione visiva. […] La fotografia, in particolare, aumentò il potere dell’immagine rispetto a qualunque struttura di sostanza. […]
Con la fotografia, le riviste, la televisione e gli edifici progettati via fax, la cosiddetta superficialità è divenuta il tratto distintivo dei nostri tempi. […] Una forma generalizzata di estetizzazione, trasmessa dai media, ha in effetti preso piede. Esattamente come i bombardieri stealth ripresi dalla televisione sullo sfondo del tramonto saudita sono stati estetizzati, […] così tutta la cultura – e questo naturalmente include l’architettura – viene estetizzata […]. Inoltre l’esposizione simultanea di queste immagini porta ad una riduzione della storia ad immagini simultanee […]. La tendenza dei media a consumare immagini relative all’architettura è enorme e una delle conseguenze dello spostamento dell’attenzione verso la superficie risiede nel fatto che la storia dell’architettura ha finito per coincidere in gran parte con l’immagine stampata e con la parola stampata (e la loro diffusione), e non con la costruzione. […]
Il classicismo eclettico, il razionalismo, il neomodernismo, il decostruzionismo, il regionalismo critico, l’architettura verde […] – tutto ciò coesiste e finisce per provocare in noi una profonda indifferenza: indifferenza verso la differenza. […]
La domanda: perché opporsi a questo mondo mediatico? Forse in nome di una qualche solida, unitaria realtà? Dovremmo ancora vagheggiare un coerente Gesamtkunstwerk? […]
In realtà, se la maggior parte dell’architettura è divenuta superficie, decorazione applicata, aspetto esteriore, architettura di carta (o “edificio-insegna”, per usare la nota espressione di Venturi), cosa distingue l’architettura dalla progettazione di cartelloni pubblicitari? Ovvero, per essere ancora più ambiziosi: cosa distingue l’architettura dalle riproduzioni a stampa, dall’immaginazione e dalla grafica di una pubblicazione? Se i cosiddetti contestualismi e gli storicismi tipologici non sono altro che una serie di accurati travestimenti applicati a una formula preconfezionata – in altre parole una pelle su una struttura che rispetta o disgrega il volume degli edifici adiacenti – come è possibile che l’architettura rimanga un mezzo tramite il quale la società esplora nuovi territori e sviluppa nuove conoscenze?
BERNARD TSCHUMI, Sei concetti, in ID., Architettura e disgiunzione, Pendragon, Bologna 2005, pp. 182-86.
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L’immagine prospettata è semplicemente irrealizzabile – ma non per questo irrappresentabile.
Alla crescita vertiginosa del potere delle immagini corrisponde un loro trattamento e sfruttamento sempre più elaborato e raffinato: giacché, spezzata una volta per tutte la corrispondenza biunivoca fra la «realtà» e la sua immagine (l’originaria e apparentemente naturale dipendenza di questa da quella, della «finzione» dell’una dalla «verità» dell’altra), ne consegue una sempre maggior autonomia dell’immagine, il suo costruirsi come un profotto «artificiale», di sintesi. L’immagine diviene così una seconda realtà, una realtà alternativa, altrettanto plausibile di quella reale – e anzi, a volte ancora di più. […] A ben guardare, il sovvertimento è molto più vasto e radicale: ed è piuttosto la logica del videogame – e non il contrario – quella su cui ormai la realtà si conforma. Nel mondo virtuale è l’immagine a dominare: ovvero, non è più la realtà a essere qualcosa che l’immagine non può rappresentare, è l’immagine a rappresentare qualcosa che la realtà non può essere. […]
La miglior esemplificazione è fornita dal lavoro di Massimiliano Fuksas (1944). In esso la gerarchia tra realtà virtuale e realtà reale è del tutto sovvertita. […] in Fuksas il virtuale sconfina direttamente nell’impossibile; altrettanto autonomo dal referente «reale», esso non crea in compenso alcuna credibile possibilità parallela, bensì soltanto una realtà delirante, una sin troppo scoperta «finzione della realtà». Tale distacco tra virtuale e possibile si sconta nella differenza spesso abissale che corre tra progetto (disegno o dipinto, maquette tridimensionale o rendering eseguito al computer) ed edificio costruito. […] così, nel Centro Congressi Italia all’Eur (1999-) come nell’Agenzia Spaziale Italiana (2000), il fulcro dell’intervento proposto (la nuvola «sospesa» all’interno del primo, il nastro continuo che si dipana ai diversi livelli del secondo) coincide con un risultato paradossale, surreale, improbabilmente attuabile nella forma del rendering. Non è un caso in tal senso che l’interesse di Fuksas si appunti sui territori extra-architettonici quale propria fonte d’ispirazione: su immagini della natura o di culture lontane, «che non ha[nno] nulla a che fare con l’architettura»1. Né che egli vagheggi l’utilizzo di materiali inaspettati, «”supposti”, immaginati», come la «materia acquosa, liquida […], quasi trasparente, molle, traslucida» dei due ultimi progetti citati: la diversione nettissima da qualsiasi codice di riferimento comunemente accettato – sia esso relativo alla genesi della forma o allo stato della materia – è strettamente correlata all’ottenimento del massimo di astrazione rispetto non soltanto al reale ma al suo stesso superamento. L’immagine prospettata è semplicemente irrealizzabile – ma non per questo irrappresentabile. La rappresentabilità, anzi, diviene il solo criterio che l’architettura è chiamata a rispettare, benché ciò spesso comporti trascurare le più elementari leggi della statica o della funzionalità.
[1] MASSIMILIANO FUKSAS, PAOLO CONTI, Caos sublime, Rizzoli, Milano 2001, pp. 97-98.
MARCO BIRAGHI, Storia dell’Architettura contemporanea II: 1945-2008, Einaudi, Torino 2008, pp. 495-506.
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Quando un oggetto viene letto esclusivamente attraverso la propria immagine, esso viene privato di gran parte del proprio significato.
Si è definita la condizione presente nei termini di una “estasi della comunicazione”. Gli avanzamenti tecnologici nel campo della telecomunicazione e dei metodi di riproduzione visiva hanno fatto sì che la nostra società sia costantemente inondata di immagini. […] Sebbene si sia generalmente concordi nel sostenere che questa inondazione di immagini conduca ad una “società dell’informazione” caratterizzata da alti livelli di comunicazione, secondo alcuni autori questa “estasi della comunicazione” produrrebbe esattamente l’effetto contrario: «viviamo in un mondo», sostiene Jean Baudrillard, «nel quale c’è sempre più informazione e sempre meno significato». È proprio nell’infinita clonazione dell’immagine, nell’infinita proliferazione dei segni, che il segno stesso diventa invisibile.
Per Baudrillard, anche se siamo abituati a pensare che l’informazione generi significato, in realtà quello che succede è esattamente l’opposto. L’eccesso di informazione nega il significato: «l’informazione divora il proprio contenuto» […]. Baudrillard fa l’esempio di un report in ventuno volumi pubblicato dalla Exxon Corporation, un report talmente vasto che nessuno potrebbe in alcun modo assorbire tutte le informazioni contenute al suo interno: «Exxon: il governo americano richiede un report completo sulle attività delle multinazionali a livello mondiale. Il risultato è un volume di mille pagine la cui lettura, per non parlare dell’analisi, richiederebbe diversi anni di lavoro. Dove sta l’informazione?».
In un mondo che ha perduto il contatto con i suoi riferimenti reali, l’immagine diventa la nuova realtà. […] Nel “delitto perfetto” del ventunesimo secolo, è la realtà stessa ad esserci stata sottratta. […] Nel momento in cui le immagini si emancipano dal proprio contesto culturale di origine, esse vengono feticizzate e giudicate in base alla sola apparenza superficiale, negando di fatto la possibilità di una loro comprensione in profondità. […] Quando un oggetto viene letto esclusivamente attraverso la propria immagine, esso viene privato di gran parte del proprio significato. L’immagine è tutto ciò che resta.
Le conseguenze di questa situazione sono profonde. Il privilegio accordato all’immagine ha portato ad un impoverimento nella comprensione dello spazio costruito, trasformando lo spazio sociale in un feticcio astratto. […] «L’immagine uccide», come osserva Henri Lefebvre, e non può rendere conto della ricchezza dell’esperienza vissuta. […] Gli stessi metodi di rappresentazione dell’architettura hanno contribuito ad estetizzare il processo progettuale, occultando molti dei vincoli che governano la pratica architettonica. […] La trasformazione dell’immagine nel feticcio della cultura architettonica […] intrappola dunque il discorso architettonico all’interno di logiche puramente estetiche, spogliandolo di una parte rilevante del proprio significato originale.
NEIL LEACH, The anaesthetics of architecture, The MIT Press, Cambridge, London, 1999, pp. 1-10
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