[omissis] | davide tommaso ferrando
Il progetto è trasformazione e riorganizzazione di materiali in nuova cosa.
Il progetto di architettura non è progetto politico: suo compito non è di prevedere per dominare ma di vedere per costituire, illuminando un frammento del presente (e con esso il suo valore posizionale preminente nell’orizzonte dell’età contemporanea) attraverso alla proposizione di un nuovo precario stato di equilibrio dell’insieme derivante dalla presenza della nuova cosa. Il progetto è modifica di condizioni, trasformazione e riorganizzazione di materiali in nuova cosa. La dimensione soggettiva non lo fonda, è un prisma che rifraziona la luce della condizione che lo attraversa, anche se è solo per mezzo di tale prisma che essa si rivela, prende forma e modifica la condizione stessa, persino evoca ciò che non è in alcun modo presente. […]
Per avvicinarsi a questo stato il progetto deve certo ancora passare attraverso al nuovo necessario da spendersi con grande parsimonia nella misura minima pesante e indispensabile in cui esso è strumento di costituzione della cosa architettonica. Il nuovo come fantasma della diversità in sé, appartiene piuttosto oggi al mondo rilevantissimo della comunicazione. È quindi da esso che prima di tutto è necessario prendere le distanze: senza alcun disprezzo. Semplicemente bisogna affermare che è la sua infinita estensione a decretarne l’inutilità.
VITTORIO GREGOTTI, L’architettura del compimento, in “Casabella”, n. 619-620, Gennaio-Febbraio 1995, p. 4, 6.
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Non si progetta mai per ma sempre contro qualcuno o qualcosa.
La nozione di progetto deve essere precisata. Il progetto di un prodotto industriale è la risultante di un certo numero di dati, ragguagliati e combinati in modo da risolvere le loro contraddizioni. Più che un progetto è un calcolo preventivo; il risultato più che una proposta, è una deduzione. Nel corso del processo si hanno confronti, riduzioni, scelte finali, ma in vista del successo del prodotto o del progresso della tecnica che lo produce. Non vi è valutazione propriamente critica, perché la critica valuta l’atto che si è compiuto, si compie, si vuol compiere in rapporto alle ragioni istituzionali e alle finalità di una data attività o disciplina, di cui si riconosce la necesssità e si vuole assicurare la durata e lo sviluppo. Per ammettere che il processo della produzione industriale abbia una componente critica dovremmo accettare il postulato che la ragione ed il fine dell’industria, anzi di tutto il lavoro umano dalle origini a oggi, è il profitto, sia pure inteso come ulteriore incremento al lavoro stesso. E non possiamo ammetterlo, perché sappiamo che fin dai suoi primi atti l’industria ha distrutto l’oggetto riducendolo a mezzo di profitto, a merce. […]
Non si progetta mai per ma sempre contro qualcuno o qualcosa: contro la speculazione immobiliare e le leggi o le autorità che la proteggono, contro lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, contro la meccanizzazione dell’esistenza, contro l’inerzia dell’abitudine e del costume, contro i tabù e la superstizione, contro l’aggressione dei violenti, contro l’avversità delle forze naturali; soprattutto, si progetta contro la rassegnazione all’imprevedibile, al caso, al disordine, alla percossa cieca degli eventi, al destino. Si progetta contro la pressione di un passato immodificabile, affinché la sua forza sia spinta e non peso, senso di responsabilità e non complesso di colpa. Si progetta contro qualcosa che è, perché muti; non si può progettare per qualcosa che non è; non si progetta per ciò che sarà dopo la rivoluzione, ma per la rivoluzione, dunque contro ogni tipo e modo della conservazione. È quindi impossibile considerare la metodologia e la tecnica del progettista come zone di immunità ideologica. La sua metodologia e la sua tecnica sono rigorose perché ideologicamente intenzionate. L’ideologia non è astratta immagine di un futuro-catarsi, è l’immagine del mondo che cerchiamo di costruire lottando: pianificando non si pianifica la vittoria ma il comportamento che ci si propone di tenere nella lotta.
GIULIO CARLO ARGAN, Progetto e Destino, Il Saggiatore, Milano, 1968
[segnalato da Davide Tommaso Ferrando]
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