[omissis] | davide tommaso ferrando
Design develops systematic deviations from models.
Considering Loos’s “distribution of volumes in space”, many authors have described the Raumplan as a way of treating the architectural interior, a technique of structuring or ordering private settings. The usual support for this interpretation is an isolated phrase from Loos’s essay “Heimatkunst” [The house should be reticent on the outisde and unveil its entire richness on the inside]. That his buildings were rich on the inside cannot be denied; this is apparent in their cladding materials and their sectional geometry. But if the sophistication of Loos’s three-dimensional configurations cannot be disputed, neither can their “integration” into the vicinity in which they were sited, for the [interlocking] of room to room in a “plan of volumes” was also a binding together of interior and exterior settings […]. One cannot have reciprocity without distinct boundaries, without separation between the corresponding parts. […]
Considering the Moller or Rufer houses in Vienna or the Müller Villa in Prague, one could, I think, “reconstruct” the distribution of settings inside their walls by considerating carefully the opportunities for repetition and contrast latent in their sites, interpreting the vicinity as a set of “predispositions” within which a “plan of volumes” could be developed: entry at the front, service at the back, morning light from one side, quiet on another, and so on. One could develop such an interpretation, because one knows, without special study, just from cultural experience, how rooms of various types are typically oriented in typical sites, near to or far from this or that ambient quality. This is not to say that design in this sense involves the comprehensive or uncritical duplication of models; instead, it develops systematic deviations from them, in recognition of or in response to the exact particulars of the project, particulars that derive partly from its modernity. […]
The Raumplan is as much a function of the opportunities of the building’s surrounds as it is of internal relationships and dependencies, the latter being insufficient in themselves to determine any configuration. More emphatically, without the salient characteristics of the vicinity, Loos would have been at a loss to determine things as basic as window sizes and their placement, the orientation and extent of a terrace, and the location of an entry. […]
I do not mean to say that the site, any more than the typical dining room, predetermines the soultion simply because it has been “received via tradition”. Rather, both “inheritances” (the site and the program) serve as predispositions, pretexts, or first premises for design, outlining or sketching the basic limits of a possible configuration, against which topographical invention works itself out through modification, contrast, and differentiation, to the degree design judgment determines is right.
This decision making is where design technique (geometry) is guided by nontechnical and nonteachable forms of understanding, which in brief can be called practical or ethical understanding. The matrix of differently qualified settings that results from both kinds of understanding constitutes a legible terrain of affairs or topography that discloses the building’s participation in a collective past through its modification of the forms in which that past had been known.
DAVID LEATHERBARROW, Architecture Oriented Otherwise, Princeton Architectural Press, New York 2009, pp. 155-57.
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Imitare strutture di antiche costruzioni significa uscire dalla tradizione.
Oggi imitare e adombrare strutture di antiche costruzioni nate da possibilità materiali e particolari destinazioni, ora scomparse o mutate, equivale a costruire la scenografia di una realtà inesistente, uscire anziché inserirsi, nella tradizione. Le nuove costruzioni montane debbono avere un’autonomia e una sincerità propria che tragga la sua ragione d’essere da una completa visione di un problema attuale del costruire in montagna. Occorre affrancare le nuove case da sovrapposizioni artificiosamente e astrattamente imposte dal superficiale sentimento di conservare il “colore locale della zona” e che in definitiva si riduce alla apparente riproduzione di tecniche oggi irripetibili […].
Non credo di essere pessimista se affermo e insisto che il problema del costruire in montagna coincide ancora, per desiderio di enti e committenti, con il vagheggiamento di centri montani formati da villette e complessi alberghieri nascosti e cammuffati da “villaggio alpino”.
CARLO MOLLINO, Tabù e tradizione nella costruzione montana, citato in CRISTIANA CHIORINO, BRUNO REICHLIN, Dal piroscafo sulla neve alla grande disillusione, in SERGIO PACE (a cura di), Carlo Mollino architetto. 1905-1973. Costruire la modernità, Electa, Milano 2006, p. 138.
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Nessun artista di alcun genere sviluppa il suo pensiero in totale autonomia.
Se l’unica forma di tradizione, di eredità, consistesse nel seguire i passi della generazione immediatamente precedente in cieca o timida aderenza alle sue acquisizioni, la «tradizione» andrebbe sicuramente scoraggiata. […]
La tradizione è un argomento di significato ben più ampio. Non si eredita, e, volendola, si ottiene solo con grande sforzo. In primo luogo essa implica il senso storico, probabilmente quasi indispensabile a chi voglia continuare a fare poesia dopo il venticinquesimo anno di età; ed il senso storico implica la percezione del passato non solo trascorso, ma anche presente; il senso storico obbliga un uomo a scrivere non solamente con la coscienza della propria generazione ma con la consapevolezza che l’intera letteratura europea […] esiste contemporaneamente in un quadro simultaneo. Tale senso storico, senso sia di ciò che è senza tempo, come di ciò che è temporale, come di ciò che è senza tempo e temporale insieme, è quel che rende uno scrittore «tradizionale», ed al tempo stesso lo rende acutamente consapevole della sua collocazione storica, della sua contemporaneità. […]
Nessun poeta, nessun artista di alcun genere sviluppa il suo pensiero in totale autonomia.
T.S. ELIOT, Selected Essays, 1917-32, Harcourt, Brace and Co., New York 1932, pp. 3-4, in ROBERT VENTURI, Complessità e contraddizini nell’architettura, Dedalo, Bari 2005, p. 12.
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Dobbiamo essere a conoscenza di una certa tradizione, e averla compresa, prima di essere in grado di criticarla.
Si dovrebbe comprendere chiaramente che possono esservi soltanto due atteggiamenti fondamentali nei confronti della tradizione. L’uno consiste nell’accettarla acriticamente, spesso senza neppure esserne consapevoli. In molti casi non è possibile evitarlo; infatti, spesso, non ci rendiamo conto di trovarci di fronte a una tradizione. […] Ogni giorno facciamo centinaia di cose influenzati da tradizioni di cui non siamo coscienti. E se non sappiamo di agire sotto l’influenza di una tradizione, non possiamo fare a meno di accettarla acriticamente.
L’altra alternativa è rappresentata da un atteggiamento critico, che può risolversi tanto nell’accettazione quanto nel rifiuto, o magari in un compromesso. In ogni caso dobbiamo essere a conoscenza di una certa tradizione, e averla compresa, prima di essere in grado di criticarla […]. Ora, non penso che possiamo mai liberarci completamente dai vincoli della tradizione. Il cosiddetto processo di liberazione è in realtà soltanto il passaggio da una tradizione all’altra. Siamo tuttavia in grado di liberarci dai tabù di una tradizione, e possiamo farlo non solo rifiutandola, ma anche accettandola criticamente. Ci liberiamo da un tabù se vi riflettiamo, e ci domandiamo consapevolmente se dobbiamo accettarlo o rifiutarlo. […]
Le tradizioni hanno la rilevante, duplice, funzione non solo di creare un certo ordine […] ma anche di offrirci una base su cui possiamo operare, e che è possibile sottoporre a critica e cambiare. […] Un ingegnere non crea un motore direttamente da dei nuovi progetti. Egli, piuttosto, lo sviluppa a partire da modelli precedenti, lo cambia e lo modifica interamente più volte. […] Non importa che cosa si ha di fronte e da dove si parte: è sempre necessario introdurre piccole modifiche. E poiché tale sarà sempre la situazione, è molto più sensato e ragionevole prendere l’avvio da ciò che già esiste in un certo momento, dato che delle cose esistenti, almeno, conosciamo i punti critici. […] Il procedimento razionale consiste nell’apportare correzioni e mutazioni radicali, non nello spazzar via tutto. […]
KARL R. POPPER, Per una teoria razionale della tradizione, in idem, Congetture e confutazioni, il Mulino, Bologna, 1972, pp. 207-233.
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