critica

[omissis] | davide tommaso ferrando

What kind of criticism can there be in an age of globalization?

Globalization […] is […] one of the major processes or phenomena associated with what has come to be called postmodernity. The idea of criticism or critical judment, on the other hand, goes back to the Enlightenment, has deep roots in the Marxist tradition, and belongs to the mindset we associate with modernity.

As such, it has been suggested that we are now living in a “post critical” age. It is true that global restructuring has ushered in unprecedented forces of temporal and spatial compression, reducing distances and speeding up time, both of which – distance and time – seemed necessary in the past for genuine critical reflection. It has also given us a pervasive sense of cultural relativism, making us aware that there is no longer any Archimedean point, any privileged position, from which to do criticism. Finally, what Fredric Jameson has spoken of as the becoming economic of the cultural and the becoming cultural of the economic – in other words, the market’s contamination of every sphere of life, including the intellectual – has cast doubts on the possibility of preserving any really objective or autonomour domain for critical practice. Together, all these developments suggest an anthitetical or antagonistic relationship between globalization and criticism.

So my first impulse is to ask: can there be criticism in an age of globalization? But because I remain suspicious of the glibness of formulations like the postcritical, which in the end are cynical inasmuch as they leave the dominant system unchallenged, if not strongly reinforced, the question I wish to put on the table is rather: what kind of criticism can there be in an age of globalization? […]

We may ask more specifically: how can contemporary critical discourse in architecture find a place to insert itself between Cassandra-like warnings, on the one hand, and cynicism and an uncritical celebration that provides the smooth surfaces for globalization¡s destructive impacts, on the other?

JOAN OCKMAN, Criticism in the Age of Globalization, in BERNARD TSCHUMI, IRENE CHENG (ed.), The State of Architecture at the Beginning of the 21st Century, The Monacelli Press, New York 2003, pp. 78-79

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La scelta di un pensiero critico si traduce politicamente in una volontà progettuale.

Dirò subito che il concetto di critica è inseparabile da quello di progettazione. Vedremo che, così come non si progetta senza una preventiva critica, non si dà critica senza una finalità progettuale.

Perché si progetta?  E ancora: che cosa si fa allorché si progetta? È chiaro che si progetta qualcosa di nuovo perché la copia, il calco di qualcosa già fatto non è un progetto, non ha quella proiezione, quella prospettiva sul futuro che è il progetto […]. Quindi il progetto è l’antitesi, l’opposto della copia.

Ma se si rifiuta la copia, se si rifiuta la ripetizione passiva, inerte di qualcosa di già fatto è evidentemente perché si considera insoddisfacente quanto già fatto. E quindi il primo atto del progettista è l’analisi di una situazione, la constatazione che questa situazione non è esaurientemente soddisfacente delle attuali istanze; e quindi il progettista deve in qualche modo modificare quella situazione. […]

Allorché formulo un giudizio, cioè compio un processo critico grazie al quale accerto che una data situazione non mi soddisfa e che quindi intendo cambiarla, quella situazione passa […] “in giudicato”, diventa passato, ossia diventa per me pensabile solo in quel processo critico che è la storia […].

Se giudico passata, esaurita, chiusa , non prorogabile la situazione attuale, ipotizzerò necessariamente una situazione diversa. Tuttavia, nel fare ipotesi, ne è pressoché illimitato il limite, il raggio, la gamma, il registro: potrò fare una serie di ipotesi all’interno delle quali dovrò scegliere. […] Questa scelta non può essere arbitraria, ossia non potrò scegliere una qualunque delle possibili soluzioni. Sono infatti costretto alla realtà […].

Quel che sostanzia la scelta nel quadro generale della nostra cultura è l’invenzione formale […] cioè il trovare qualche cosa di nuovo che abbia ciò nonostante una coerenza e quindi un rapporto di necessità con l’esistente […].

L’attività progettuale dell’architetto […] parte da un’analisi, quindi da una critica del passato, e di conseguenza da una precisa rinuncia a tutti i possibili revival, e insieme dalla negazione di ogni verità apodittica o dogma. La scelta di un pensiero critico, di un pensiero contestativo nei confronti di ogni verità o autorità affermata, si traduce politicamente in una volontà progettuale; e la volontà progettuale si collega inevitabilmente a una aspirazione progressiva.

GIULIO CARLO ARGAN, Lezione, 23 febbraio 1982, in Luca Monica (a cura di), La critica operativa e l’architettura, Unicopli, Milano, 2002, pp. 60-80.

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