[omissis] | davide tommaso ferrando giovanni benedetti
L’edificio iconico porta a compimento il declino dell’idea di monumento.
Noi europei veniamo […] da una tradizione in cui lo spazio pubblico, così altamente istituzionalizzato, viene estetizzato e monumentalizzato attraverso l’apporto delle arti plastiche, oltre che dell’architettura.
La modernità ottocentesca ha fatto emergere il concetto di monumento antico, in altre parole qualunque opera della mano dell’uomo, senza riguardo al suo significato e alla sua destinazione, che mostri soltanto di essere esistita da prima del tempo presente. […]
Ma la posizione ottocentesca […] si scontra […] con le idee rivoluzionarie dell’architettura moderna […]. La medesima nozione di monumento moderno sarebbe, infatti, per Mumford una contraddizione in termini: un monumento in sé non può esser affatto moderno. Un monumento sarebbe di per sé un fatto architettonico scultoreo ormai appartenente al passato, senza alcun ritorno o possibilità di riportarlo nella vita e nella memoria attiva del presente e del futuro. […] Sembra che nessuno sia più in grado di superare la questione posta da Mumford nel 1938, che aperto il dibattito, lo chiuse definitivamente con l’aforisma “Se è moderno, non è monumentale”. […]
I saggi del 1966 L’architettura della città di Aldo Rossi, Complexity and Contradiction in Architecture di Robert Venturi e Il territorio dell’architettura di Vittorio Gregotti […] mostrano come negli stessi anni un’intera generazione di architetti si interrogasse sulla necessità di definire nuove coordinate che potessero guidare e orientare la dimensione del fare e dell’agire architettonico […]. Per Gregotti è l’intera forma del territorio […] ad essere presa in considerazione. La nuova geografia induce ad affrontare un nuovo problema scalare degli interventi architettonici dove alla grande dimensione si affida una valenza sostitutiva del ruolo monumentale. […] Nel saggio di Rossi il territorio della speculazione teorica e della pratica operativa è rivolto invece a riconsiderare le regole interne dell’architettura e il suo rapporto con la città [che], così come viene analizzata e rilevata da Rossi […], si compone “per parti” autonome e riconoscibili, dalla cui dialettica derivano le declinazioni di ogni realtà specifica: il tessuto ripetitivo della residenza e l’individualità dei monumenti. […]
Dopo l’afasia del Movimento Moderno assistiamo ad un inaspettato ritorno della figura del “monumento”, questa volta inteso come un’emergenza, un evento spaziale eccezionale, sostanzialmente un landmark materializzato nella forma esaltata dei cosiddetti “iconic buildings”. […] Nella concezione dello spazio urbano l’identità della metropoli è oggi affidata a figure parziali, a frammenti emblematici, e la sua restituzione mediatica non coincide né con la realtà urbana composita né tantomento con l’immagine “vissuta”, e cioé quella che ne hanno gli abitanti. […] Il nuovo tipo di edifici apparsi negli ultimi vent’anni – sarebbe meglio chiamarli “iconic landmark building” -, promossi da forze sociali e commerciali alla ricerca di una notorietà o visibilità istantanea, cercano nell’ambito nichilista della nuova metropoli di apparire come modelli o esemplari clamorosi di sculture surreali, programmaticamente avulsi dal tessuto urbano. […]
Per avere un edificio iconico occorre predisporre un’immagine condensata, con un alto profilo figurale o gestaltico che si stacchi dall’immagine della città. Per diventare potente deve richiamare qualcos’altro, in qualche modo deve rappresentare una metafora inattesa e sorprendere e diventare un simbolo di culto, una sfida della società secolarizzata. […] Da quando siamo immersi in un mondo che si vuole sempre nuovo e comunicativo ogni giorno, i mezzi sono tutto e i fini sono scomparsi. Per imporsi allora bisogna stupire, essere diversi a ogni costo. Proprio a partire da tutte queste considerazioni la stessa idea di assegnare un alto valore formale e un significato superiore, se non proprio un culto, alla costruzione di edifici simbolici, ridotti alle loro vestizioni decorative di promozione, sembra del tutto utopica […].
L’edificio iconico porta a compimento il declino dell’idea di monumento nell’epoca della globalizzazione, con la sua mancanza oggettiva di referenti, la sua preminente funzione di evento, la sostanziale estraneità alla fisiologia della vita urbana e, da ultimo, con il suo difetto di permanenza, la sua caducità.
PIERLUIGI NICOLIN, I monumenti e le icone, in ID. La verità in architettura. Il pensiero di un’altra modernità, Quodlibet, Macerata 2012, pp. 173-188.
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La monumentalità si può definire come una qualità che manifesta quanto vi è di eterno in una struttura.
In architettura, la monumentalità si può definire come una qualità; una qualità spirituale, che manifesta quanto vi è di eterno in una struttura. E’ la qualità che percepiamo nel Partenone, il simbolo inequivocabile della civilizzazione iniziata in Grecia.
Vi è chi sostiene che noi viviamo in un’epoca di squilibrata relatività, di cui è impossibile dare intepretazioni univoche. Per questa ragione, penso, molti architetti ritengono che noi non siamo mentalmente attrezzati per attribuire un carattere monumentale alle nostre costruzioni.
La monumentalità è un enigma, non la si crea intenzionalmente e neppure i materiali più nobili, da soli, possono garantire a un’opera i caratteri della monumentalità, per la medesima ragione per la quale per scrivere la Magna Charta non fu necessario utilizzare l’inchiostro più raffinato. Tuttavia i nostri monumenti architettonici ambiscono a possedere quella perfezione strutturale che li rende memorabili, che ne chiarisce le forme ed esprime la logica della loro scala.
Nessun architetto può costruire una cattedrale di un’epoca trascorsa, dando forma alle attese e alle aspirazioni, all’amore e all’odio che animavano colo che l’hanno lasciata in eredità. Per questa ragione le immagini di monumentalità che il passato ci offre non possono ritornare in vita conservando l’intensità e i significati che possedevano originariamente. Una replica fedele è impossibile, ma, tuttavia, non possiamo dimenticare la lezione che gli edifici antichi impartiscono, poiché appartiene loro quella grandezza che dovranno possedere, a loro modo, anche le nostre costruzioni future.
L’architettura greca impiegava essenzialmente materiali sottoposti a compressione. Ogni pietra e ogni componente strutturale erano concepite per sostenere con cura, evitando di generare tensioni alle quale la pietra non può opporsi.
I grandi costruttori delle cattedrali dedicavano il medesimo amore per la perfezione e la chiara espressione dei fini a ciascuna parte della struttura.
Quanto è derivato dall’arco romano, dalla volta, dalla cupola, ha impresso caratteri che hanno scavato le pagine della storia dell’architettura. Questa concezione strutturale e queste forme hanno attraversato il romanico, il gotico, il Rinascimento e la contemporaneità, e ritorneranno con energia ancora maggiore grazie alle teconologie e alle capacità degli ingegneri.
LUIS KAHN in MARIA BONAITI, Architettura è. Luis I.Kahn, gli scritti, Electa, Milano, 2009, pg.56-63.
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