RF: Davide, vengo subito al tuo discorso. Dunque, parto laddove dici: «qual’è l’obiettivo di tutto questo ambaradan, se non quello di costruire scatole per abitare (o gli spazi tra le scatole per abitare, o gruppi di scatole per abitare) “migliori”[…]?».
Bene, mi vien da obiettare il fatto che tu riduca l’elenco delle possibilità progettuali alle famose scatole o a ciò che, per esclusione, sta tra di esse. A mio avviso, invece, la novità sta proprio nel considerare la città (il mondo?) come fatto da una miriade di differenti “entità” (pezzi, parti, identità, oggetti, aree, flussi, reti…) che non hanno meno “diritto” ad essere progettate di quanto non lo abbiamo gli edifici tipologicamente riconosciuti come tali dalla tradizione.
È in questo che io sostengo che il mondo degli architetti è più complesso di così, e con ciò non intendo dire che – com’è ovvio – possiamo scegliere di «realizzare oggetti di design, progettare città, pianificare interi territori, scrivere libri di filosofia, lanciare mode, curare mostre, candidarsi a sindaco, etc…» come alternativa al nostro mestiere; dico, al contrario, che è proprio il mestiere di progettista ad essere cambiato in toto. Fare l'”architetto architetto” è oggi un’altra cosa rispetto anche a solo pochi anni fa, per una lunga serie di motivi. Poi nulla toglie che possiamo candidarci a quel che ci pare e fare la vita che vogliamo.
E difatti, anche rispetto alla questione “dal cucchiaio alla città”, io ho l’approccio opposto: certo che estendere «lo stesso approccio, quello architettonico, a tutte le scale della progettazione […] è un’idea degli anni ’20 che si è rivelata – a nostre spese – sbagliata», non lo metto in dubbio. L’errore fu quello, all’epoca, di pensare che il salto di scala fosse solo una questione dimensionale, e ciò condannò le nostre città alla zonizzazione funzionale, come se in esse fosse possibile dividere “zona giorno e zona notte” (si fa per semplificare).
Ma, a mio modesto parere, quello sbagliato approccio può insegnarci ancora qualcosa: ovvero che, se la città come macchina ha tragicamente fallito, importare la complessità della progettazione urbana negli interventi di architettura (la macchina come città!) può fornire risultati difficili e interessanti.
Mi rendo conto che sto impostando un discorso che avrebbe bisogno di ben altri approfondimenti. Posso ovviamente fornirne qualora a qualcuno sembri il caso.
Andando avanti: ahimé sì, sono tra quelli, come Hans Hollein, che credono che tutto sia architettura, ma vorrei che fosse chiaro che con ciò non intendo nulla che si avvicini, come punto di vista, agli artisti concettuali che sul finire del secolo scorso giustificarono – spesso – il più totale nulla poetico con l’idea per la quale ogni cosa è arte per la sola sua possibilità di diventarlo.
Al contrario, penso che i limiti della disciplina siano del tutto permeabili, e ciò in virtù della pienezza e della ricchezza delle implicazioni che essa ha nei confronti dell’assetto sociale umano, non di un paradigma estetico qualsivoglia, né di messaggi più o meno sorprendenti da trasmettere in piena libertà – come nell’arte.
E penso altresì che questa permeabilità dei bordi dell’architettura sia tutt’altro che una novità, e che all’opposto il tentativo di darle una forma “contenuta” in ben precisi argini sia solo un’astrazione novecentesca (direi: novecentista). Prima di allora, questi margini non erano definiti da nessuna parte, e nessuno sembrava curarsene. Orafi, scalpellini, matematici, pittori, ebanisti e artigiani di ogni tipo sono stati, in passato, architetti… e non da poco! Molti dei grandi padri della nostra disciplina sono approdati ad essa per vie traverse, e taluni sono tornati alle loro vecchie mansioni o ad altre ancora, dopo tragitti sfavillanti nell’olimpo dei costruttori quanto in quello dei teorici.
E per venire appunto alla costruzione, lungi da me sia ogni discorso che non porti – presto o tardi – a questa. Però, col senno pronto a connettersi a quelle esigenze nuove che le grandi e piccole trasformazioni della nostra epoca hanno già portato alla professione (che ci piaccia o no), e che (sempre che ci piaccia o no) si possono comprendere solo attraverso l’incursione continua negli altri ambiti del reale.
DTF: Eccomi Rossella. In primo luogo, non vedo molta differenza tra il dichiarare, come hai fatto tu, che «ogni discorso porta presto o tardi alla costruzione» e, come ho fatto io, «che la teoria dell’architettura, per essere chiamata tale, in un modo o nell’altro deve comunque relazionarsi all’essenza della disciplina, che è la “costruzione”». Lungi da me l’idea di proporre nuovamente una figura di architetto-scienziato chiuso nella sua torre d’avorio: ma se è architettura, quella che si vuole produrre (e non qualcos’altro), ci devono essere dei principi che ci consentano di differenziarla, ad esempio, dalla scenografia, dall’arredo urbano, dal landscaping, dalla progettazione territoriale, dall’edilizia, etc… e questi principi hanno a che vedere, sempre e comunque, con la costruzione. L’incursione negli altri ambiti del reale è parte integrante dell’architettura, certo, ma non sufficiente, proprio perché per riconoscere l’esistenza di ambiti “altri”, è necessario definire e circoscrivere chiaramente l’ambito di partenza: lo diceva con chiarezza già Mies van der Rohe nel 1959 (dunque nove anni prima di Hans Hollein) quando affermava che «L’architettura [che Mies chiamava «Baukunst», e cioè arte del costruire] è l’espressione di un’epoca [eccoli tutti gli altri ambiti] tradotta in spazio».
Il testo di Hollein fu scritto in un anno particolare per la cultura occidentale, il 1968, praticamente in contemporanea con la diffusione delle tesi radicali dei fiorentini Archizoom e Superstudio: era un periodo in cui si sentiva la necessità di “rompere gli schemi” (sto semplificando troppo, lo so, abbi pazienza), e di complessificare un approccio all’architettura ritenuto troppo rigido e accademico. Oggi ci troviamo, mi sembra, nella situazione esattamente opposta: la liberazione semantica introdotta da Hollein ha portato infatti ad una eccessiva diluizione del termine «architettura», e non tanto nel senso dell’ampliamento da lui sostenuto del bacino di materiali ai quali l’architetto può attingere (cosa che, comunque, già Mies aveva fatto e Viollet Le Duc prima di lui: a Hollein, invece, il merito di esser passato dai “materiali materiali” ai “materiali immateriali”); quanto nel senso della negazione dello stesso status ontologico dell’architettura. Dichiarare che «Un edificio potrebbe diventare in toto informazione» e che «In realtà sembra quasi non avere importanza che l’Acropoli o le Piramidi esistano davvero», è indubbiamente suggestivo, ma ha portato ad una grave perdita del centro della disciplina architettonica, arenatosi – ancora oggi – nella postmodernissima idea che «l’architettura è [soltanto] un mezzo di comunicazione». Senza entrare nel merito del rapporto (molto problematico, come dimostrato dal post-strutturalismo) tra significato e significante, è chiaro che la riduzione dell’architettura a «comunicazione» non ci aiuta a distinguerla da altre discipline (anche le scenografie comunicano, anche i libri, anche le opere d’arte etc), e quindi non ci aiuta a conoscerne l’essenza: fattore chiave per permetterci di farla progredire insieme alla nostra cultura (ed il fatto che oggi ci si trovi in una fase di evidente manierismo dovrebbe far pensare a tal riguardo).
L’attuale retrospettiva sul postmoderno del Victoria and Albert Museum, però, ci suggerisce che in qualche modo l’era inaugurata da Hollein è finita, o sta finendo, e che sono altri i valori ai quali bisogna puntare, oggi, se si vuole far fare uno scatto in avanti alla nostra cultura architettonica: bisogna, cioè, recuperare gli schemi distrutti nel ’68, tornare a dedicarsi al reale, definire nuovamente i contorni di ciò che è stato slabbrato e confuso, per poi declinarlo in maniera conforme allo spirito del nostro tempo. Il salto all’indietro, sono convinto, è necessario per compiere il salto in avanti, perché negli ultimi decenni ci si è tanto allontanati dal centro disciplinare dell’architettura, e si sono tanto persi i suoi presupposti conoscitivi e critici, che l’idea di posizionarsi in continuità, e non in rottura, con lo stato attuale delle cose è semplicemente terrificante.
Le discipline, insomma, sono permeabili – soprattutto l’architettura, che per definizione è interdisciplinare – ma è necessario che, in questo dialogo tra più sistemi culturali, ciascuna disciplina mantenga ben chiara la propria specificità, il proprio nucleo, il proprio genus: senza di esso, qualsiasi discorso critico sull’architettura è infatti impossibile (cosa critico, se non posso definire una scala di valori di riferimento, dato che tutto è architettura?), e senza un discorso critico è impossibile ipotizzare una direzione verso la quale far progredire lo stato attuale. Del resto, come scrisse Tafuri, «Carattere precipuo del «moderno» è la costante autocritica», mentre la categoria del postmoderno si presenta, come ha scritto Gregotti, come una «descrizione a volte caricaturale della condizione di progressiva disgregazione degli impegni critici della cultura di fronte allo stato delle cose». L’attuale stato dell’architettura italiana, caratterizzato da una diffusa assenza/incapacità di critica, è dunque una condizione tipicamente postmoderna, che deve essere perciò superata anche attraverso il ricorso/ritorno alla critica, intesa come atteggiamento nuovamente «moderno» nei confronti della cultura del proprio tempo, oltre che come disciplina autonoma. Per fare questo, è però necessario prima di tutto definire i confini di ciò che deve essere nuovamente sottoposto a critica, escludere invece di includere, ed è per questo che mi sembra che il saggio di Hollein, oggi, non debba più essere assunto come un punto di riferimento (non in tutte le sue parti, almeno).
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