trasparenza

[omissis] | davide tommaso ferrando

Il vetro, un tempo perfettamente trasparente, ora si rivela in tutta la sua opacità.

Come ben sappiamo, la modernità è sempre stata ossessionata dal mito della trasparenza: trasparenza del sé davanti alla natura, del sé davanti agli altri, di tutte le individualità davanti alla società – tutto questo rappresentato, se non costruito, sa Jeremy Bentham a Le Corbusier, per mezzo della trasparenza universale dei materiali da costruzione, della permeabilità dello spazio e dell’onnipresente flusso di aria, luce e movimento.

Il vetro, un tempo perfettamente trasparente, ora si rivela in tutta la sua opacità.

Anzi, negli ultimi venticinque anni le accuse all’universalismo modernista si sono svolte proprio nel segno dell’opacità. A partire dall’abile offensiva condotta contro le facilità moderniste da Colin Rowe e Robert Slutzky in Transparency: Literal and Phenomenal, la trasparenza è stata progressivamente screditata dalla critica del soggetto universale in politica e psicanalisi. Al suo posto, l’opacità – letterale e fenomenica – è divenuta il motto del richiamo postmoderno alle radici, alla tradizione, alla specificità locale e regionale, a una rinnovata ricerca della sicurezza domestica. Qualche anno fa si sarebbe potuto concludere che, per quanto l’antica arte di abitare non fosse stata completamente rivitalizzata (a esclusione delle imitazioni kitsch) di certo la trasparenza era morta.

Eppure negli ultimi anni, quasi a confermare la propensione del secolo per le ripetizioni inquietanti, ci troviamo ancora una volta di fronte a un rinvigorito invito alla trasparenza […].

La trasparenza vera e propria è notoriamente difficile da ottenere (lo ha ammesso anche I. M. Pei): slitta rapidamente in oscurità (il suo contrario apparente) e in riflettività (il suo rovescio). Nonostante tutte le ricerche compiute dalla ditta di vetri Saint-Gobain, la piramide di vetro [del Louvre] rimane una piramide di vetro, né più né meno trasparente del padiglione di vetro cemento realizzato da Bruno Taut nel 1914.

Parallelamente a questa tendenza, cominciamo a discernere i primi segni di un atteggiamente più complesso […]. In questa vena, il cubo di vetro immaginato da Rem Koolhaas nel progetto di concorso per la Bibliothèque Nationale francese, il quale sembra mostrare gli organi interni come in un modello anatomico, è al tempo stesso una conferma della trasparenza e una sua critica complessa. Qui, infatti, la trasparenza è concepita come solida, non come vuota, con i volumi interni scavati in un blocco cristallino, fluttuanti al suo interno in sospensione amebica. I volumi sono poi rappresentati sulla superficie del cubo come presenze umbratili, la loro tridimensionalità raffigurata in modo ambiguo e appiattita, sovrapposti l’uno all’altro in un gioco di densità amorfe. La trasparenza si trasforma in traslucenza, e questa in buio e oscurità. La qualità inerente della trasparenza assoluta, cioè la capacità di trasformarsi nel suo opposto, la riflettività, è posta in dubbio: il soggetto non può più perdersi nell’espace indicible della ragione infinita, né ritrovarsi nel narcisismo del riflesso di sé. Esso è, invece, sospeso in un momento delicato a metà tra conoscenza e blocco, catapultato in un’esperienza di densità e amorfismo persino nel momento in cui si trova davanti a una superficie esterna che non è, effettivamente, niente più di un simulacro bidimensionale dello spazio interno.

ANTHONY VIDLER, Il perturbante dell’architettura. Saggi sul disagio nell’età contemporanea, Einaudi, Torino, 2006 (Cambridge, 1992), pp. 240-243.

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